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Olivier Rachet
Leggi i suoi articoliIl collettivo Bled El Abar («il paese dei pozzi») non è nato dal nulla. Nel 2013, due dei suoi membri, gli architetti Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub, hanno fondato a Ginevra il Laboratoire d’architecture, elaborando diversi progetti in Europa e in Africa. Nel 2021 sono curatori del Padiglione svizzero alla Biennale di Architettura di Venezia e, due anni dopo, espongono all’Arsenale, sempre in occasione della Biennale, «Welcome in Nomadland», insieme all'architetto tunisino Hamed Kriouane, terzo membro del collettivo.
Al centro del loro interesse è la questione dei nomadi, a causa delle condizioni in cui, durante il periodo coloniale e poi sotto la presidenza di Habib Bourguiba, questi ultimi sono stati costretti a sedentarizzarsi. «I deserti non sono vuoti», ricorda Mounir Ayoub, riprendendo il video di Yann Gross presentato nella mostra «Lands of Wells» organizzata da Bled El Abar a Le 32bis di Tunisi dal 18 aprile al 28 giugno 2025. «È la scomparsa dei nomadi dal deserto che fa seccare il deserto, e non il contrario. Sono stati cacciati, tanto che i pozzi si sono prosciugati e non ci sono quasi più uccelli migratori, capre, pecore o cammelli. L’acqua esistente sarebbe sufficiente per creare un ambiente vivibile».
Da questa constatazione nasce il loro desiderio di interessarsi ai pozzi del deserto tunisino, al «Bled El Abar», nome che i suoi abitanti danno a un territorio delimitato a nord dal Chott el-Jerid, a sud dal Grand Erg orientale, a est dal djebel Dahar e a ovest dal confine algerino. «Gli unici nomadi che vivono oggi nel deserto tunisino, precisa Ayoub, sono gli algerini della tribù dei Rebaia». «Spesso attraversano tutto il deserto per raggiungere i confini libici», aggiunge Kriouane.
Un lavoro cartografico
Diversi soggiorni in questo «paese dei pozzi» hanno permesso al collettivo di abbozzare una prima mappa della regione, riprodotta nella mostra al 30/1000e, in cui i pozzi sono rappresentati in scala più grande. «È difficile stabilirne il numero esatto, ammette Kriouane. Forse ce ne sono 600 o 700». Anche la loro datazione non è semplice, poiché non è raro che alcuni pozzi siano adiacenti a siti romani:«Si trova calce o pietra, ma anche materiali contemporanei come cemento o cemento armato», prosegue Kriouane.
La complessità del territorio, documentata dagli scatti di M'hammed Kilito, con l’obiettivo di diversificare le prospettive, si basa sul paradosso di una popolazione nomade lontana dai punti d'acqua che le consentirebbero di soddisfare i propri bisogni e costretta a gestire le acque superficiali attraverso muretti di contenimento, perché, «alla fine, piove anche nel deserto», ricorda Vanessa Lacaille.
A causa della sedentarizzazione forzata di queste popolazioni, l’agricoltura locale e artigianale è spesso sostituita da un’agricoltura intensiva, meno attenta all’ambiente. «In questa regione si stanno insediando molti palmeti, con pozzi alimentati da pannelli solari che generano una potenza di estrazione molto elevata, spiega. Tutta l’acqua in eccesso viene scaricata, evapora e crea punti di ristagno che s’infiltrano pochissimo e non ricostituiscono la falda freatica».

M’hammed Kilito, «Senza titolo», 2024. © M’hammed Kilito. Courtesy Le 32bis
Un approccio multidisciplinare
Tutta la forza del progetto che ha portato il collettivo a riparare, insieme alla popolazione locale, il pozzo di Bir Ettin, sviluppando protezioni in foglie di palma intrecciate, risiede nel suo carattere multidisciplinare. «Se l’obiettivo del collettivo è anche quello di raccogliere fondi, siamo consapevoli che non riusciremo a realizzare questo progetto da soli, ma solo collaborando con scienziati o artisti», riconosce Kriouane.
Hela Djobbi, direttrice del 32bis, sottolinea l’aspetto innovativo dell'iniziativa: «Non è proprio nella tradizione tunisina creare archivi. La fotografia permette di censire le diverse fonti d’acqua, mentre i video della mostra utilizzano un’estetica accessibile al pubblico dell’arte contemporanea.»
La collaborazione con il fotografo marocchino M’hammed Kilito è senza dubbio uno dei punti di forza della mostra. «Il progetto Bled El Abar è in sintonia con il mio approccio, conferma Kilito, evocando l’installazione che ha presentato a febbraio alla Biennale di Sharjah 2025, in relazione all'oasi di Figuig, in Marocco. Dal 2019 documento gli effetti del cambiamento climatico sulle oasi, sia in Egitto, a Gabès in Tunisia e presto in Mauritania».
Questa acutezza di sguardo, che ritroviamo nel video di Yann Gross, è magistralmente al servizio dell'esperienza scientifica del collettivo di architetti.
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