Barche addobbate di luci di ritorno da un pellegrinaggio attendono nelle secche il ritorno della marea per poter tornare a casa al loro villaggio (2019) di Arko Datto

© Arko Datto

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Barche addobbate di luci di ritorno da un pellegrinaggio attendono nelle secche il ritorno della marea per poter tornare a casa al loro villaggio (2019) di Arko Datto

© Arko Datto

Tim Clark: «La natura non è un luogo al di fuori di noi»

A Reggio Emilia, al via la XIX edizione di Fotografia Europea con il tema «La natura ama nascondersi». Ne abbiamo parlato con uno dei direttori artistici

Il festival Fotografia Europea continua, dopo la scorsa edizione che si interrogava sull’identità europea, a porre domande sul nostro vivere contemporaneo. L’edizione del 2024 riflette su come la natura si manifesti ai nostri sensi, o anche, contrariamente di come non si manifesti, pur agendo ugualmente su di noi e l’ambiente in cui viviamo. Tim Clark, direttore artistico del festival insieme a Walter Guadagnini e Luce Lebart ci racconta l’ideazione di questa edizione.

Il tema di questa edizione di Fotografia Europea vuole rivelare un’accezione specifica della natura, il suo nascondersi. Perché questa scelta?
Facendo ricerca per quest’edizione del festival, è risultato evidente che, nel pensiero occidentale, le persone tendono a intendere la parola «natura» in modo diverso, designandola come «ciò che è opposto all’uomo». Eppure gli esseri umani sono parte della natura, parte di un organismo naturale più grande, un «corpo globale» i cui confini si dissolvono e si integrano vicendevolmente, come ha sottolineato Daisy Hildyard nel suo libro The Second Body (Fitzcarraldo Editions, 2017). La natura non è un luogo al di fuori di noi, ma una «molteplicità di esistenti», per usare l'espressione di Bruno Latour. Abbiamo riflettuto su come essa si celi ai nostri sensi e su come riveli il suo potere in modi a volte distruttivi e a volte delicati. Inoltre, come esseri umani, ricerchiamo negli animali, tra le piante, nelle rocce o lungo fiumi il loro carattere essenziale, nel tentativo di scoprirla e comprendere di conseguenza noi stessi e il mondo che ci circonda. Tuttavia, i sensi di ogni essere vivente sono diversi, a seconda dell'istinto di sopravvivenza, quindi la realtà è percepita come molteplice e mutevole, frammentata e limitata. Anche la stessa mente umana, ad esempio, ha la capacità di nascondere a sé stessa la verità. Ed è proprio questo comportamento paradossale che è stato evocato da Eraclito nella frase: «La natura ama nascondersi», usata da noi come titolo di questa edizione di Fotografia Europea. Scegliendo questo tema abbiamo voluto rendere manifesto come l’esplorazione del concetto di «natura» metta in connessione il suo occultamento con la sua scoperta. Crediamo che l’eterogeneità delle serie fotografiche scelte riconduca al concetto di «coesistenza» come parte della vita sulla terra. Il contesto di tutti i progetti è l'Antropocene e le storie si svolgono sia su scala locale che sulla scena planetaria, parlando di sinergie, sostenibilità ed emergenza climatica.

Ci può fare un esempio di mostra per descrivere come questo macro tema dialoghi con i progetti che avete scelto?
Una mostra esemplificativa è quella della fotografa documentarista e artista politica Lisa Barnard, «An Act of Faith: Bitcoin and the Speculative Bubble». Nella complessità del suo progetto, che racconta dell’Islanda e del Giappone, Barnard offre un viaggio illuminante in una «mining farm» (struttura che ospita i computer atti a estrarre criptovalute, come i bitcoin) appositamente costruita in Islanda, chiamata Genesis Mining (per inciso, ora fallita), mettendo a confronto l’instabilità di un’attività digitale ad alto rischio con i paesaggi selvaggi della Nazione nordica. La geologia unica dell'Islanda, terreno vulcanico combinato con fiumi e laghi glaciali, offre un'abbondante riserva d'acqua e calore sotterraneo, che viene sfruttato dalle dighe idroelettriche e centrali geotermiche al fine di produrre elettricità verde e a basso costo che renda sostenibile il processo di consumo energetico necessario a confermare le transazioni in criptovaluta. Tuttavia, per evitare che le macchine si surriscaldino, questi grandi data center sono arrivati a utilizzare più elettricità di tutte le case islandesi messe insieme, con il risultato di aver dovuto costruire ulteriori infrastrutture che esercitano una maggiore pressione sull'ambiente naturale dell'Islanda. L’opera di Barnard mostra queste contraddizioni. Le sue immagini parlano di ciò che non è immediatamente evidente, rendendo la questione più facili da capire.

L’immagine guida del festival è una fotografia del progetto di Arko Datto «The Shunyo Raja Monographie». Perché è così rappresentativa secondo lei?
Arko Datto affronta pienamente il discorso ambientale contemporaneo. Il suo straordinario racconto, diviso in tre capitoli, «The Shunyo Raja Monographies», inquadra, in particolare, la crisi che affrontano gli abitanti del delta del Golfo del Bengala (il «ground zero» del cambiamento climatico) e le implicazioni filosofiche della crisi globale che, in generale, l'umanità deve affrontare. A Reggio Emilia, nello specifico, presentiamo due capitoli del suo lavoro: «Kings of a Bereft Land» e «The Final Wave», che si occupano principalmente delle conseguenze psicologiche del cambiamento climatico. Arko Datto le rappresenta grazie all’uso del flash a distanza ravvicinata e all’uso degli infrarossi con i quali l'onnipresenza dell'acqua si trasforma in un vero e proprio simbolo di terrore. Il suo lavoro stimola diverse domande e forse per questo motivo la sua immagine è stata usata come immagine guida del festival: ad esempio, come può la fotografia documentaria rispondere in modo univoco alla complessità di un ambiente caratterizzato da un disastro ecologico, quando il tempo in quel paesaggio è fugace?

Ci racconta le due mostre vincitrici dell’open call di Fotografia Europea 2024, «Shifters» di Marta Bogdańska e «Nsenene» di Michele Sibiloni?
Siamo rimasti impressionati sia dall'ampiezza che dalla singolarità delle più di tremila immagini che sono state raccolte dall’artista polacca Marta Bogdańska per la serie «Shifters», un'indagine avvincente sull’uso e l’addestramento degli animali come soldati, spie, poliziotti e kamikaze, basata su concetti come la «storia dal punto di vista animale» di Éric Baratay e la «biopolitica» di Michel Foucault. Michele Sibiloni, invece, ha prodotto un progetto molto intrigante chiamato «Nsenene» («cavallette») che mira a esplorare i cacciatori di cavallette in Uganda, insetti ricchi di proteine che offrono una promettente fonte di cibo per il futuro, ma la cui specie è in declino a causa della deforestazione e dell’imprevedibilità delle piogge. Siamo rimasti colpiti dall'audace approccio visivo di Michele, che riprende il suo soggetto con il favore dell'oscurità e attraverso le nebbie notturne. Il suo lavoro evoca, con senso allucinatorio, l'effetto della natura sulla società umana e sulla comunità globale in generale, in particolare in relazione alla fame nel mondo e alla scarsità di cibo.

«Little Italy. Dee and Lisa on Mott Street» (1976), di Susan Meiselas. © Susan Meiselas/Magnum Photos

Francesca Orsi, 24 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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