Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

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Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Sylvain Bellenger: «La stabilità culturale rende l’Italia un Paese altamente conservatore»

Direttore generale del Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli dal novembre 2015, lo specialista di Anne-Louis Girodet racconta il suo percorso fuori dagli schemi

Direttore generale del Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli dal novembre 2015, il francese Sylvain Bellenger (Valognes, 1955) specialista di Anne-Louis Girodet (1767-1824), pittore del quale ha curato una mostra al Louvre nel 2005-2006, racconta il suo percorso fuori dagli schemi.

La Storia dell’arte era per lei una scelta ovvia?

Per niente. Volevo diventare filosofo. Ho quindi studiato a Caen poi a Parigi facendo supplenze nelle scuole, in particolare corsi di recupero, per pagarmi gli studi. A venticinque anni, durante una visita qui a Napoli, al Museo di Capodimonte, sono rimasto folgorato dalla «Crocifissione» di Masaccio. In quel momento è cambiato tutto. Di ritorno a Parigi ho deciso di studiare Storia dell’arte all’Université Sorbonne Paris 4. 
Grazie ai miei professori la Storia dell’arte mi è diventata indispensabile. Non mi sarei perso per niente al mondo una lezione di André Fermigier tanto era appassionante. Ma anche quelle di Bernard Dorival, di Claude Mignot e di Bruno Foucart che nella sua geniale follia è uno dei professori che più ha segnato la mia generazione. Teneva per esempio interi corsi contro la Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei!
Ricordo un viaggio che facemmo con Fermigier e Foucart in un villaggio in cui sorgeva una chiesa del Cinquecento e un monumento ai caduti del 1914. Affascinato da quest’ultimo Bruno Foucart ne parlava con trasporto… Dimenticandosi però della facciata rinascimentale della chiesa. Sono stati momenti davvero formativi. Con loro ho compreso il Rinascimento, l’architettura del Seicento, le avanguardie del Novecento e l’Ottocento, all’epoca ancora disprezzato. Mi hanno insegnato che a ogni epoca si possono applicare gli stessi metodi di analisi e questo mi è stato di grande aiuto in seguito. Eppure né il mio giudizio né la mia cultura erano strutturati come lo sono oggi. Fino ai trent’anni dubitavo di molte cose. Oramai prendo decisioni in una frazione di secondo: qualcosa è successo, in effetti.
 

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

Una veduta del Museo di Capodimonte

Sylvain Bellenger al Museo Capodimonte © Giovanna Garraffa

La psicoanalisi?

No, la Storia dell’arte per l’appunto. Questo insegnamento ha rimesso tutto al suo posto, poiché si procede a una sorta di archeologia del proprio vissuto, di autoanalisi, cercando il legame tra gli oggetti, la loro storia, i momenti di creazione, i loro significati, lo slittamento di senso, o la perdita di esso, che avviene naturalmente nel corso del tempo. Questa vera e propria disciplina intellettuale, insieme con la letteratura, la musica, la geografia, la storia, l’estetica, la filosofia, ha modellato tutto per me. Prima di allora ero in grande confusione. Intuivo quel che volevo fare, ma non ne conoscevo né il nome né la forma.

Tutto ciò è passato anche da Anne-Louis Girodet?

All’inizio ero un ottocentista e lavoravo, consigliato da Jacques Thuillier, su François-Édouard Picot un pittore di cui nessuno si ricorda più, ma determinante per quel secolo. Subito dopo gli studi universitari ho ricoperto dei ruoli meravigliosi. Il primo è stato uno stage a Senlis durante il quale ho trovato un quadro di Claude Vignon arrotolato sotto la porta che conduceva al campanile della cattedrale e usato come paraspifferi. Mi sono soprattutto interessato a Thomas Couture di cui ho ritrovato il progetto per la «Salle des États» del Louvre. 
Poi Bruno Foucart mi ha detto che il Musée Girodet a Montargis cercava un conservatore. Sono stati sette anni, dal 1992 al 1999, di puro godimento. Passavo le notti a studiare gli archivi e la corrispondenza tra Anne-Louis Girodet e Henry de Triqueti, a imparare tutto sulla scultura romantica, su questo pittore straordinario che ha contato così tanto nella mia vita. La direttrice che mi ha preceduto, Jacqueline Pruvost-Auzas, aveva già lavorato su Girodet ma sulle sculture e i gessi restava tutto da fare. La collezione Henry de Triqueti si trovava in un garage dove l’acqua gocciolava sul Duca d’Orléans!
Avevo deciso di fare di Montargis il Museo del Romanticismo ben consapevole della sua posizione infelice, tra il Louvre e l’Orsay. Era «terra di nessuno» come si dice in Italia ed è tutt’ora vero. Ho organizzato una mostra su Félicie de Fauveau al Musée d’Orsay nel momento in cui il Louvre acquistava una delle sue opere ma lì non avrebbero mai dedicato una retrospettiva alla scultrice…

Seppur specialista di pittura, lei ha molto lavorato sull’architettura e sulla scultura…

Jacques Thuiller mi aveva permesso di ottenere una borsa all’École française de Rome tra 1989 e 1990 per studiare l’ambiente degli artisti stranieri a Roma, attraverso Girodet. Una volta tornato a Montargis, vengo convocato dall’allora ministro della cultura Jack Lang, che mi riceve e mi dice «Ho sentito parlare di lei. Ha organizzato un cocktail di fundraising nel Musée Girodet dove lo champagne scorreva a fiumi in sale in cui a quanto mi si dice era vietato persino portare un bicchier d’acqua. Ha esposto un quadro delle collezioni pubbliche francesi in una banca. Ho bisogno di lei per lo Château de Blois». Un po’ stupito, gli ho risposto: «Sono un esperto di Ottocento e lo Château de Blois risale al Cinquecento», o almeno così credevo. Ma, chiaramente, accettai. 
Ho capito non solo che era possibile rileggere il Rinascimento attraverso l’Ottocento ma ho anche ricevuto la benedizione degli dèi con la chiamata di una signora: l’erede di Jules de la Morandières, capocantiere del restauro condotto da Félix Duban allo Château de Blois. Mi parlò di scatole d’archivio di cui non sapeva bene che cosa fare. Lì dentro c’era di tutto! E la corrispondenza fu pubblicata dagli «Archives de l’art français». La mostra pionieristica che abbiamo concepito su Félix Duban ha fatto anche da filo conduttore alla campagna di restauro per la «Galerie d’Apollon» del Louvre, un precedente intervento dell’architetto.
Per quanto riguarda la scultura con il mio amico Jacques de Caso ho scoperto nei depositi quattro grandi medaglioni di Auguste Préault. Da lì è nata la mostra «Auguste Préault, scultore romantico» organizzata nel 1997 al Musée d’Orsay, allo Château de Blois e al Van Gogh Museum di Amsterdam.

Non ha mai desiderato avvicinarsi a Parigi?

No, grazie a una borsa Henri Focillon nel 1994 avevo scoperto gli Stati Uniti e i metodi dei musei americani mi attiravano. Nel 1999 sono partito alla volta di Washington per un anno di lavoro al Casva [Center for Advanced Study in the Visual Arts, Ndr] sulla rappresentazione dell’infanzia nei quadri di Girodet. Alla conferenza di chiusura dedicata a quell’anno di ricerca, il direttore del Cleveland Museum of Art mi ha proposto di assumere la direzione del dipartimento di arte europea.
I miei amici democratici di Washington e il desiderio di occuparmi di quella straordinaria collezione mi hanno spinto ad accettare. Ho quindi diretto il dipartimento di arte europea e quello di arte americana preparando una mostra su Girodet che avevo negoziato al momento della firma del contratto. Appena giunto a Montargis, ho scelto di dedicare al pittore una mostra internazionale che si è poi svolta tra il 2005 e il 2006 al Louvre, al Metropolitan Museum of Art di New York, a Chicago e a Montréal. Lasciata Cleveland, lavoravo allora all’Inha [Institut National d’Histoire de l’Art, Ndr].
Nel 2012 sono ripartito per gli Stati Uniti, con l'incarico di dirigere il dipartimento europeo dell’Art Institute di Chicago per quattro anni. Lavorare in due dei più grandi musei americani, con collezioni straordinarie, mi ha insegnato la profonda importanza del management, della ricerca degli sponsor, delle indispensabili relazioni con i «trustees» nonché della priorità data al pubblico… E il rigore intellettuale d'obbligo nei dipartimenti di conservazione e di restauro. 
Ho avuto occasione di sollecitare numerose acquisizioni che per me costituiscono dei ricordi bellissimi. Per esempio, per il Cleveland Museum of Art un ritratto di Luigi XIII da giovane di mano di Frans Pourbus, la serie delle Muse di Charles Meynier, un raro Fulchran-Jean Harriet, il ritratto dei fratelli Dassy d’Hipployte Flandrin, il sublime «Rêve» di Salvador Dalí (1930) dalla collezione Noailles o ancora «January» di Grant Wood. 
All’Art Institute di Chicago ho contribuito a rafforzare la presenza delle scuole nordiche con una veduta del Colosseo di Franz Catel, la prima versione del «Prete che legge» (1836) di Martinus Rørbye, due teste idealizzate di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, un quadro di Guy Louis Vernansal, rarissimo pittore francese del XVII secolo, allievo di Charles Le Brun, un’importante scultura in marmo di Félicie de Fauveau raffigurante santa Rosalia, il celebre «Jungfer Lorenzen van Tangermüde» di Christian Daniel Rauch, in bronzo, argento e rubino. 
Il primo acquisto a Chicago è stata un’immensa Sacra Famiglia napoletana del XVIII secolo che considero come l’espressione più complessa del Barocco meridionale e che, vista in retrospettiva, appare come un presagio…

Nel 2015 ci fu il famoso concorso di assunzione dei grandi direttori dei musei italiani…

Alcuni amici napoletani mi avevano incoraggiato a candidarmi ma non conoscevo niente e nessuno al Ministero della Cultura in Italia. Mi sono candidato sul sito internet. Non avrei mai lasciato l’Art Institute di Chicago per un museo che non fosse Capodimonte. Napoli non sa che cosa sia la piccolezza: qui, tutto è gigantesco. Il più grande parco urbano del Paese (134 ettari), 124 gallerie, 49mila opere d’arte che vanno dal XVIII secolo all’arte contemporanea e includono arti decorative, disegni, incisioni, armature… La carenza di personale è però inquietante: nessun direttore amministrativo, un solo funzionario storico dell’arte; il mestiere di conservatore non esiste... Nel corso degli anni sono tutti andati in pensione e nessuno è stato rimpiazzato. 
 

Una veduta del Museo di Capodimonte

Per l’appunto, com’è stato passare dall’Art Institute a Capodimonte?

Napoli è la capitale dell’accoglienza. A Chicago, Riccardo Muti che dirigeva la Chicago Symphony Orchestra, mi aveva detto: «In Italia non avrai che una soluzione, dovrai crearti la tua isola». A Napoli alberga una qualità che permette di superare tutti gli ostacoli, la passione dei napoletani. Il tratto caratteristico del Paese è quello di sapersi creare delle difficoltà da solo. Si arriva sull’orlo del baratro, ma si trova miracolosamente una soluzione per evitare di caderci dentro.
Tutto ciò richiede un’energia immensa, da spendere in un’insicurezza costante. Questa fragilità si sposa a un altro paradosso: la stabilità culturale che rende l’Italia un Paese altamente conservatore. Quando abbiamo affidato a Santiago Calatrava la decorazione in porcellana di San Gennaro, la chiesa del personale della Reggia che si trova nel parco, l’Ordine degli Architetti ci ha bersagliato per aver «aggiunto» una sensibilità contemporanea all’edificio invece di restaurarlo. Il Cardinale di Napoli ci ha salvato proclamando, in occasione della messa d’inaugurazione, che la spiritualità del luogo era stata ripristinata.

 

Arrivando qui e a un primo sguardo, si può constatare quanto sia cambiato il parco…

Il Ministro della Cultura aveva deciso di aggiungere a quella del museo la responsabilità del parco, ossia 134 ettari, 36 chilometri di sentiero, 6 chilometri di mura. Era indispensabile proporre una visione, stabilire un «master plan», un progetto intenzionale. Bisognava in primo luogo occuparsi delle spedizioni nonché di 400 specie vegetali provenienti dall’immenso Impero spagnolo di Carlo III.
Questo museo vivente della botanica doveva essere ripensato attraverso il suo prisma patrimoniale e storico per poter essere aperto ai napoletani. Abbiamo fatto restaurare le architetture vegetali del giardino alla francese e il tracciato del giardino all’inglese arrivando a restituire questo parco storico alla città. Il «master plan» identificava quattro missioni: patrimoniale, botanica ed ecologica, digitale e sociale. Per la missione sociale di questo parco storico a ingresso libero, l’unico in Italia, mi sono affidato ai napoletani e ho imparato molto da loro.
Per esempio, un’anziana signora che amentava di non potersi sedere mi ha dato lo spunto per la campagna di adozione delle panchine. Oggi ve ne sono 240 offerte da diverse persone alle quali si aggiungono migliaia di alberi piantati e di fontane destinate ad abbeverare i cani. Abbiamo anche creato dei campi da calcio in luoghi adatti con erba sintetica riciclabile per incoraggiare i giovani del quartiere a non giocare sui prati accanto alla Reggia congiuntamente a delle aree picnic, degli spazi per cani di piccola e grande taglia, dei campi da cricket per la comunità dello Sri Lanka che rappresenta il 20% della gioventù emigrata a Napoli.
 

Molte istituzioni stanno nascendo…

Dei diciassette edifici presenti nel complesso, la maggior parte sono stati restaurati senza alcun progetto d’uso. Oggi sono tutti occupati o in corso di trasformazione affinché possano accogliere una scuola per giardinieri, un centro di ricerca, una casa della fotografia, uno spazio espositivo, un ristorante, delle residenze d’artista, una scuola di digitalizzazione…e persino un centro vaccinale che sarà riconvertito, dopo la pandemia, in centro di educazione sanitaria, dietetica e di benessere, con inclusa una scuola di giovani napoletani. Infine la costruzione di fronte alla Reggia diventerà il Museo Lia e Marcello Rumma atto a conservare la formidabile collezione di Arte povera che ci ha offerto la grande gallerista e collezionista Lia Rumma.
 

Non abbiamo ancora parlato del Museo di Capodimonte…

È il cuore della nostra prima missione: «conservazione e valorizzazione del patrimonio». La politica delle mostre è stata definita nel 2017. Ci sono mostre sperimentali, quali «Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere», «Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica», che ci fanno riflettere sulla storia che i musei trattenevano e quella che invece espurgavano; monografie di artisti legati a Napoli in una maniera e nell’altra ; manifestazioni che riuniscono arte contemporanea e collezioni storiche, come «Incontri sensibili».
La missione di digitalizzazione è l’atto più democratico dai tempi della creazione dei musei e rappresenta una modifica radicale dell’intera gestione e comunicazione delle collezioni. Importanti lavori alla Reggia saranno intrapresi tra 2023 e 2024, in collaborazione con Engie Italia, in particolare sulle coperture (che producono il 91% dei nostri consumi), sull’aria condizionata, sull’illuminazione, sulle riserve, sulla collezione Farnese e gli spazi d’accoglienza (interamente digitalizzati).Durante la chiusura, la nostra missione è di continuare a fare conoscere le collezioni di Capodimonte grazie a mostre fuori confine, la principale dal titolo «Il Louvre invita Capodimonte», si terrà a Parigi nel 2023.

Che cosa vorrebbe ancora scoprire a Napoli?

Abbiamo appena comprato per Capodimonte gli archivi napoletani della famiglia Degas. In un testo meraviglioso Paul Valéry scrive che Edgar Degas quando era di buon umore parlava e cantava in napoletano. Ma il napoletano non s’impara a scuola! Durante la Rivoluzione, sospettato di traffico illecito sul commercio di grano, il nonno dell’artista, Hilaire de Gas, lasciò Orléans per Napoli dove fondò una banca. Il padre di Degas rientrò a Parigi per gestire la succursale francese.
Gli archivi permettono di capire che le sue consuetudini di vita altoborghese provenivano proprio da Napoli. Del resto, ho conosciuto Napoli proprio grazie a Girodet del quale continuo a cercare un quadro perduto dipinto proprio qui. Nel 1790, mentre era «pensionnaire» all’Accademia di Francia a Roma, pettinato alla Tito, fu accusato di simpatie giacobine e dovette riparare su Napoli dove il padre adottivo gli aveva consigliato di curare la sua sifilide presso il dottor Domenico Cirillo. Direttore dell’Ospedale degli Incurabili, questo grande medico fu una personalità straordinaria. Una volta guarito, Girodet lo ringraziò offrendogli un dipinto che rappresenta un’altra «malattia dell’amore», la malattia d’Antioco. Presumo che questo quadro non sia andato bruciato nell’incendio della casa del medico nel 1799 visto che il ritratto di Cirillo di mano di Angelica Kauffmann è sopravvissuto. Speriamo che l’arte ci sopravviva sempre!

Traduzione di Mariaelena Floriani
 

© Riproduzione riservata

Carole Blumenfeld, 06 ottobre 2022 | © Riproduzione riservata

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