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Sebastião Salgado, «Rain on the Marié Mirim mountain range, Yanomami Indigenous Territory, municipality of São Gabriel da Cachoeira, state of Amazonas, Brazil», 2018, scatto dal progetto «Amazônia» (Sundaram Tagore Gallery, 2023)

Photo: Sebastião Salgado. © Sundaram Tagore Gallery

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Sebastião Salgado, «Rain on the Marié Mirim mountain range, Yanomami Indigenous Territory, municipality of São Gabriel da Cachoeira, state of Amazonas, Brazil», 2018, scatto dal progetto «Amazônia» (Sundaram Tagore Gallery, 2023)

Photo: Sebastião Salgado. © Sundaram Tagore Gallery

Sebastião Salgado: «Io scrivo con la macchina fotografica»

Il giornalista ricorda il fotografo: «Ero andato a trovarlo nel suo studio, in una zona poco turistica di Parigi. Mi aveva aperto la porta e mi aveva raccontato la parabola della sua vita a partire dai giorni del genocidio in Ruanda nel 1994...»

Sebastião Salgado, scomparso a Parigi il 23 maggio a 81 anni, parlava una lingua universale, come quella delle sue fotografie. Mescolava la sua lingua adottiva, il francese, con frasi in portoghese, in inglese, anche in italiano. Il tono era sempre calmo, le parole scelte con attenzione. Ogni volta che finiva una frase fissava l’interlocutore con i suoi occhi azzurri profondissimi, incorniciati dalle folte sopracciglia bianche, per assicurarsi di essere stato capito. In ogni cosa che faceva, Sebastião Salgado ha sempre messo precisione e cura. E soprattutto pazienza. Non ha mai pensato che i fenomeni del mondo potessero essere compresi nel tempo di uno scatto, i suoi progetti duravano anni e avevano bisogno di studio e metodo.

A 29 anni aveva lasciato il suo lavoro di economista proprio per andare a studiare il mondo e per spiegarlo aveva scelto come strumento la macchina fotografica. «Mi muoveva l’idea, mi ha detto la prima volta che l’ho intervistato, di raccontare i lavoratori e la loro dignità. Anche quando sono stato nei campi profughi non ho fotografato gente povera o disperata ma persone. Non ho mostrato i miserabili ma gente che viveva in equilibrio e poi ha perso la casa, la terra, e che cercava un altro luogo dove vivere. Questa è la mia fotografia: rispettarli e mostrare una storia. Non sono stato spinto dalla voglia di fare foto belle o di diventare famoso ma da un senso di responsabilità: io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita». 

Ero andato a trovarlo nel suo studio, un ex negozio con quattro vetrine di fronte al Canal Saint-Martin, in una zona poco turistica e molto tranquilla di Parigi. Mi aveva aperto la porta e mi aveva raccontato la parabola della sua vita a partire dai giorni del genocidio in Ruanda nel 1994. In quel momento era iniziato per lui un percorso di sofferenza che avrebbe coinciso con il progetto sulle migrazioni, durato sette anni, durante i quali aveva viaggiato in quasi 40 Paesi per testimoniare un’umanità in fuga. «È stato il periodo più duro, ho documentato storie terribili, ricordava. Quello che ho visto nei miei molti viaggi nelle conseguenze del genocidio ruandese mi ha fatto perdere la fede nell’uomo e nel mondo. Sotto i miei occhi la gente moriva di colera, di diarrea, di ogni tipo di malattia, della violenza dei campi profughi. Alla fine di questo percorso stavo male, la mia salute era a pezzi». 

Sebastião Salgado, «Kuwait», 1991

Aveva girato molti medici e nessuno aveva una diagnosi, finché uno gli disse: «Il problema è che tu hai troppa morte dentro». Allora decise che era tempo di cambiare vita e di abbandonare la fotografia: «Ero esausto e svuotato e pensavo di non voler più fare delle foto perché ero terrorizzato dalla violenza delle relazioni tra gli esseri umani». Lasciò Parigi e tornò in Brasile nella fattoria dove era cresciuto: «Quando ero piccolo era davvero un paradiso naturale, la casa era circondata da una grande foresta piena di fiori, con ogni tipo di uccello e perfino i giaguari. Ogni anno mio padre mi portava con lui nel lentissimo viaggio con cui spostava le mandrie, non durava mai meno di due mesi. Poi, per tornare a cavallo a casa, dove erano rimaste mia madre e le mie sette sorelle, galoppavamo per altri 20 giorni». 

Così, alla vigilia dell’età della pensione, ricominciò da dove era nato e mai avrebbe immaginato che questo lo avrebbe fatto rinascere. «Mi sono ritirato a vivere nella casa di famiglia con mia moglie Lélia, mi ha confessato, ma la mia valle era distrutta e la foresta completamente tagliata. Per rimettermi in piedi ho cominciato a raccogliere fondi per ricostruire l’ecosistema del mio paradiso, per piantare più di due milioni di alberi di 200 tipi diversi, creando uno dei più grandi progetti ambientali della storia del Brasile. Mi dovevo riconciliare con la natura e questo sforzo mi ha guarito».

Quel passaggio segnerà una svolta, il ritorno alla vita, che fiorirà con il gigantesco progetto «Genesis», a cui avrebbe lavorato otto mesi all’anno per otto anni, e poi con il suo immenso lavoro sull’Amazzonia. Un viaggio nella meraviglia del mondo che è la sua lezione più straordinaria: «Quando ho ricostruito me stesso e la mia fede nel mondo, dopo tanta morte e violenza, ho imparato a vedere il nostro pianeta sotto un altro punto di vista». Un punto di vista rivoluzionario: «Il paradiso esiste ed è mostrare la bellezza la denuncia più forte che possiamo fare».

La domanda alla base degli ultimi due grandi lavori di Salgado, il senso della sua eredità, potrebbe essere sintetizzata così: qual è il modo migliore che ognuno di noi ha per denunciare uno scempio, una devastazione, uno sfregio alla natura, alle cose o alle persone? La risposta più lineare e convincente è di mostrare gli effetti del gesto, far vedere a tutti cosa è stato combinato per fermare la mano distruttrice, correre ai ripari e, se possibile, curare la ferita. Sebastião Salgado invece, dopo una vita passata a mostrare carestie, guerre, popolazioni in fuga dai massacri, gironi infernali di lavoratori, negli ultimi anni della sua vita ha cambiato completamente il suo punto di vista: bisogna mostrare la bellezza, non la distruzione, e convincere il mondo a difenderla. Per questo, per sensibilizzarci sulla necessità di salvare l’Amazzonia, non ha ritratto la foresta che brucia, quella che viene abbattuta per fare spazio all’agricoltura intensiva, il lavoro dei minatori o quello dei cercatori d’oro, ma l’Amazzonia vivente, l’Amazzonia reale, un luogo unico e straordinario, un paradiso. 

«L’unico rimpianto che ho, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato, è che l’Amazzonia è finita per me, sono diventato vecchio e per viaggiare dentro la foresta bisogna avere una buona salute perché si dorme nelle amache, ci si lava nei fiumi, si mangia quello che capita. Ma spero sinceramente che non diventi il passato per l’umanità e che tutti facciano tutto il possibile per proteggere questo grande ecosistema che è essenziale per la vita di tutto il nostro pianeta».

Sebastião e Lelia Salgado. Photo © Ricardo Beliel

Mario Calabresi, 07 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Sebastião Salgado: «Io scrivo con la macchina fotografica» | Mario Calabresi

Sebastião Salgado: «Io scrivo con la macchina fotografica» | Mario Calabresi