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Se lo Stato cambia idea quando abbiamo già esportato

L’annullamento d’ufficio dell’attestato di libera circolazione e la buona fede

Antonella Anselmo

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Agli albori dello Stato moderno, nel XVIII secolo, Guillaume-Thomas François Raynal scriveva: «Dove regna la buona fede, basta la parola». Talvolta nell’odierna prassi amministrativa non basta neanche l’attestato. La circolazione delle opere d’arte si inserisce tra i mercati regolamentati e si fonda su regole chiare e ragionevoli, coerenti con l’ordinamento dell’Unione Europea. Queste regole sono applicate, in sede di controllo, dagli Uffici Esportazione.

La riforma legislativa del 2017, che ha semplificato le procedure, ha tuttavia lasciato insoluto il dilemma dell’autotutela. Non sono sporadici i casi di annullamento d’ufficio di attestati di libera circolazione già rilasciati, e ciò anche a fronte dell’intervenuta uscita definitiva dell’opera dal territorio nazionale. Tali casi, in parte già affrontati dalla giustizia amministrativa, pongono un vero e proprio dilemma giuridico. Quali sono i presupposti e i limiti dell’autotutela e fino a che punto è tutelabile la buona fede del proprietario dell’opera che ha regolarmente ottenuto il rilascio dell’attestato di libera circolazione?

Per affrontare il dilemma, qui limitato ai soli casi di buona fede, occorre illustrare gli elementi dell’autotutela e, quindi, la natura dell’attestato. L’annullamento d’ufficio è una delle forme più ricorrenti di autotutela, e presuppone un vizio originario del provvedimento amministrativo riscontrato dalla stessa Amministrazione in sede di riesame sul proprio operato. Il vizio può essere solo di legittimità, ossia per incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere.

Più semplicemente, l’illegittimità comporta un contrasto rispetto alla legge, intesa nel senso più ampio, e per tale ragione può essere valutata dal giudice amministrativo, oltre che dalla stessa Amministrazione. Esulano viceversa dall’ambito dell’annullamento i vizi tecnici e gli errori di merito, o meglio di inopportunità, perché questi non discendono dall’applicazione della legge, ma da altre discipline del sapere umano.

L’annullamento è anche retroattivo, ossia cancella gli effetti dell’atto viziato a decorrere dal momento in cui lo stesso fu emanato (ex tunc). Ma per procedere all’annullamento d’ufficio, non basta l’esigenza di ripristino della legalità, condizione necessaria ma non sufficiente: occorre la dimostrazione di un pubblico interesse che giustifichi l’eliminazione dell’atto viziato e, soprattutto, lo stravolgimento di un assetto di interessi già consolidatisi.

Diviene determinante, allora, valutare il fattore tempo. Questo è definito con criteri di ragionevolezza oppure circoscritto al limite dei 18 mesi, secondo la riforma del 2015 che ha modificato la legge sul procedimento amministrativo. Il decorso di un termine troppo lungo sarebbe quindi di ostacolo all’annullamento d’ufficio, e ciò a garanzia del legittimo affidamento e della stessa credibilità delle istituzioni.

A prescindere dai dubbi circa il limite temporale dell’annullamento d’ufficio, la giurisprudenza amministrativa sembra ancora incerta nel definire la natura dell’attestato di libera circolazione. Si oscilla tra le diverse definizioni di autorizzazione, giudizio tecnico, certificazione, atto conformativo. È bene rilevare che l’esatto inquadramento dell’attestato non è pura speculazione di diritto, ma produce diversi effetti pratici: per questa ragione è fondamentale il rigore giuridico da parte dell’interprete del diritto, sia questi il funzionario pubblico, il giudice o l’avvocato.

Senza entrare nei dettagli della disputa, si può osservare che l’attestato di libera circolazione è un provvedimento di natura mista che, al suo interno, racchiude gli esiti di un controllo sul contenuto della denuncia e sulla natura della cosa. Il procedimento ex art. 68 del Codice Urbani, unitamente al RD 363/1913, ancora vigente, descrive infatti atti di ispezione, di identificazione della cosa, di accertamento dei presupposti di legge e di congruità del valore dichiarato, ma soprattutto conferisce all’amministrazione il potere di esprimere un giudizio valutativo ad opera della commissione di esperti.

Detto giudizio, in quanto inerente le soft sciences, è in sé opinabile, non riproducibile come il giudizio matematico, dunque è suscettibile di variare nel tempo. Per questo il legislatore ha posto un termine all’efficacia dell’attestato, che oggi è quinquennale. Inoltre detto giudizio, per non sfociare in arbitrio, deve risultare conforme agli Indirizzi ministeriali e alle risultanze dell’istruttoria.

Se questa è la premessa per affrontare il dilemma, si può osservare che l’annullamento d’ufficio non può essere il rimedio per un «ripensamento» della valutazione tecnica già espressa dagli esperti dell’amministrazione e che ha determinato il rilascio dell’attestato, escludendo la natura di bene culturale. Né la retroattività dell’annullamento può riguardare gli effetti già esauriti o cancellare un fatto storico compiuto, in sé pienamente lecito, come l’uscita della cosa dal territorio nazionale a fronte del regolare rilascio di attestato di libera circolazione.

Al riguardo si pone anche un dubbio di carenza di potere per gli effetti extra-territoriali e ultra-temporali del rimedio non previsti dalla legge speciale. Tanto più nei casi in cui nessuna responsabilità penale o amministrativa risulti accertata a carico di chi ha regolarmente prestato affidamento nei confronti di un atto dell’amministrazione. E la legge ragionevole è quella che differenzia il trattamento, secondo il principio di buona fede.
 

Antonella Anselmo, 13 giugno 2021 | © Riproduzione riservata

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