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Antonio Foscari
Leggi i suoi articoliA suo tempo, come veneziano e componente del Consiglio di amministrazione del Louvre, sono stato coinvolto sul tema della «restituzione» a Venezia dell’immensa tela dipinta da Paolo Veronese («Nozze di Cana», 1562-63) per il cenacolo del Convento benedettino di San Giorgio Maggiore. Molti ne ricordano la storia: la tela era stata «prelevata» da Napoleone e non era poi stata inclusa nell’elenco redatto da Antonio Canova delle opere che dopo la fine del regime napoleonico la Francia ha dovuto restituire all’Italia. Perché? Perché troppo grande e perché il viaggio di ritorno sarebbe stato troppo costoso. Così è rimasta lì, al Louvre, piazzata sulla parete opposta a quella su cui campeggia in tutto il suo splendore la «Gioconda», sicché gli otto milioni e più di persone che vengono a Parigi per ammirare la celeberrima opera di Leonardo, a Paolo Veronese voltano le spalle.
Come tacitare il malumore dei veneziani che continuavano a sostenere che quel capolavoro di Veronese dovesse tornare a casa? Il rimedio è diventato possibile facendo la riproduzione della tela originale con le tecniche più sofisticate di cui oggi disponiamo, tecniche che di un quadro consentono di riprodurre non solo l’immagine ma anche la consistenza materica. Se a Veronese, nel dipingere la sua opera, fosse colata una goccia di colore, anche quella goccia sarebbe stata riprodotta. Nello scenario europeo solo una ditta era allora all’altezza di un’impresa del genere, la Factum Arte dell’inglese Adam Lowe a Madrid, che venne infatti incaricata di eseguire le riprese fotografiche con le sue attrezzature altamente sofisticate e di «montarle» con la massima accuratezza e precisione fino a ricomporre un’immagine globale del dipinto di Veronese non distinguibile dall’originale se non a pochi centimetri di distanza. Quando questa riproduzione è stata installata nel luogo stesso in cui Veronese aveva in origine collocato la sua opera, gli studiosi hanno dovuto ammettere che se ne aveva una percezione più distinta a Venezia che non al Louvre. Contemporaneamente, è evaporato nel nulla il revanscismo di coloro che sostenevano che a Venezia venisse restituita la tela originale che a Parigi era da più di due secoli.
Se questa «restituzione», tra le più complesse per le implicazioni amministrative e diplomatiche che comportava, ha avuto un tale successo, perché non replicare sistematicamente tal genere di operazioni? Per esempio porre sugli altari della Chiesa veneziana di San Giobbe le spettacolari riproduzioni così fedeli e realistiche che oggi si possono fare dei due capolavori della pittura veneziana, uno di Giovanni Bellini e uno di Marco Basaiti, che sono conservati a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia? Se questo avvenisse, si avrebbe una ragione in più per visitare la Chiesa di San Giobbe e la possibilità di vedere le riproduzioni delle due splendide tele nella stessa collocazione e con l’illuminazione naturale che Bellini e Basaiti avevano considerato nel concepire le loro opere: finalmente si potrebbero ammirare nelle strutture architettoniche, due importanti altari lapidei, che ne avevano condizionato la concezione, la dimensione e la «messa in scena». Lo studioso che intendesse visionare l’originale per verificare ogni dettaglio e ogni sfumatura delle due opere altro non dovrebbe fare che trasferirsi alle Gallerie dell’Accademia che dalla Chiesa di San Giobbe dista poche centinaia di metri. Insomma, in un’infinità di casi sembra ragionevole utilizzare al meglio le tecnologie oggi disponibili per ristabilire il nesso logico e nel contempo concettuale tra le opere d’arte e gli ambiti per i quali erano state concepite. Sono restituzioni reversibili e innovative che possono ricostituire e valorizzare con efficacia il patrimonio culturale e artistico.

Paolo Veronese, «Nozze di Cana», 1562-63. Foto tratta da Wikipedia