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Riccardo Deni
Leggi i suoi articoli«Paradiso», il nuovo progetto espositivo di MP5 a Spazio C21, Reggio Emilia, non racconta un altrove idilliaco, ma un altrove possibile, radicalmente umano. Dodici figure attraversano lo spazio della galleria - dieci sculture all'interno, due visibili dal cortile - componendo una scena vuota di parole ma pregna di intensità. È la prima volta che MP5 - artista visiva sempre sospesa tra segno politico e tensione lirica - lavora con il tridimensionale. Le sagome in alluminio, ritagliate nel suo inconfondibile bianco e nero, emergono come apparizioni stabili e instabili allo stesso tempo. Figure fluide, mutanti, ibride, che sembrano rifiutare qualsiasi catalogazione binaria per disegnare, piuttosto, una comunità temporanea di gesti e segnali reciproci.
La curatela di Beatrice Leanza, racchiusa nel testo critico «Progetti Umani», accompagna questo paesaggio fisico ed emotivo senza mai ridurlo. «Paradiso», scrive, «evoca l’esperienza intima di luoghi di attraversamento e di intensa prossimità», dove ogni corpo è specchio dell’altro, e lo spazio condiviso non è semplice contesto, ma condizione di senso. Il cuore visivo del progetto è un giardino pensile che si arrampica su una parete del cortile: non un ornamento, ma una soglia simbolica, un dispositivo di accoglienza e transizione. Un paradiso laico, immerso nelle estetiche del clubbing e della socialità fluida.
Qui l’identità non è una forma chiusa, ma un movimento. Le figure di MP5 mettono in crisi il confine tra sé e l’altro, tra arte e vita, tra gesto politico e gesto sensuale. La collettività che costruiscono non è ideale, ma profondamente situata, fatta di corpi che si sfiorano, che sostano insieme, che condividono uno spazio e una vulnerabilità. Quello che «Paradiso» mette in scena – e in crisi – è proprio il concetto stesso di appartenenza. Non c’è un dentro e un fuori, non c’è una norma o un centro. C’è invece un habitat affettivo e instabile, dove le individualità non si sommano, ma si intrecciano. Come sottolinea Leanza, si tratta di «un habitat vivente in cui l’identità coincide con l’agire collettivo», un ecosistema umano dove la distanza si misura in empatia, e non in metri.