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Giorgio Bonsanti
Leggi i suoi articoliIl problema della replica e della sostituzione di parti nell’arte contemporanea
Occuparsi di conservazione dell’arte contemporanea significa rimettere in discussione molte convinzioni. Come utilizzare le categorie comportamentali della tradizione, se gli oggetti (e già questa terminologia può essere incongrua) sono così strutturalmente diversi? Il nuovo Whitney Museum of American Art, che ha lasciato l’edificio di Marcel Breuer nell’Upper East Side per la nuova sede di Renzo Piano a Manhattan, presenta un caso stimolante, e ce ne ha parlato il «New Yorker» dell’11 gennaio scorso. Curiosamente descritta come «scultura» nell’articolo di Ben Lerner, la cosa è in realtà un carrello che trasporta alcuni oggetti abitualmente usati per la pulizia di un albergo, e parti della figura (la testa, un piede con calzino e sneaker) della cameriera addetta al compito; fa parte di una serie e ha il titolo «Cost of living (Aleyda)», dove Aleyda è il nome della cameriera. L’autore è l’artista trentaseienne Josh Kline. Carrello e oggetti sono stati realizzati in gesso e cianoacrilato con una stampante 3D; ma il problema nasce dal fatto che i file forniti dall’autore sono pesantissimi, tanto da eccedere di molto le capacità tecniche delle stampanti 3D attuali. Di conseguenza, il vero oggetto che traduca l’idea artistica sarà realizzato in un futuro che oggi non possiamo prevedere; sempre naturalmente che i file si siano salvati.
Fin qui, il problema riguarda soprattutto il cartellino del museo, che difficilmente potrebbe (e infatti non lo fa) spiegare sinteticamente al pubblico tutta la faccenda. Ma, quando sceglierà di ristampare gli oggetti? E una volta che si inizia a replicare le parti, si domanda l’autore dell’articolo, quand’è che l’opera non sarà più la stessa? È per rispondere a questa e ad altre domande assimilabili, e tenuto conto che il problema della replica o sostituzione di parti nell’arte contemporanea si pone assai di frequente, che il Whitney ha creato nel 2008 un apposito Replication Committee di quattordici membri, presieduto da una restauratrice ben conosciuta, Carol Mancusi-Ungaro (già Yale, Getty, Oberlin, Houston; e dal 2001 fra Whitney e Harvard).
La questione chiave è quella dell’autenticità o originalità, sempre particolarmente critica, e ancor più nel restauro del contemporaneo, per l’aleatorietà e polisemanticità insite nell’arte dell’oggi. In un incontro della Commissione con Kline, ad esempio, uno dei membri si domandava se, nel caso di una mostra, invece di mandarci l’originale sarebbe stato possibile ristampare gli oggetti in loco. E a proposito di un tipico Claes Oldenburg, una borsa da ghiaccio alta quattro metri («Ice Bag Scale C»), Lerner si chiede perché mai riparare i meccanismi interni, che tanto non si vedono, quando si potrebbe molto più facilmente rimpiazzarli… Ma, appunto, il restauro proprio questo fa, altrimenti non è più tale. Però risulta che l’esterno della borsa è stato rimpiazzato o ridipinto… E allora, occorre dire chiaramente, anche se in maniera provvisoria e aperta come non mai, che prima o poi qualcuno dovrà anche provare a stabilire quali siano nel restauro del contemporaneo i confini, oltrepassando i quali non si ha più restauro ma qualcos’altro, da chiamare diversamente. Il pubblico, ma ancor più i responsabili dei musei e i Consigli di amministrazione, dovranno cominciare ad accettare che le opere esposte mostrino visibili i segni del tempo (invecchiamenti, danni, degrado) la cui cancellazione potrebbe collocarsi oltre quel limite, obliterando l’autenticità. In ogni caso apprezziamo che il Whitney si sia dotato di un laboratorio di 280 metri quadrati, grande sei volte quello del vecchio edificio. Necessario perché, lo sappiamo, le opere vecchie sei secoli reggono bene; i problemi li danno quelle di sei giorni.
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