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Povera ma bella, cioè un festival

In tempi di crisi, la biennale indiana punta su performance e letteratura

Gli organizzatori della Biennale d’arte contemporanea di Kochi-Muziris, nello stato di Kerala, al sud dell’India, devono combattere contro la svalutazione monetaria che colpisce il Paese. Poesia e performance sono dunque il cuore pulsante della mostra, che prosegue sino al 29 marzo. Finanziata da alcuni dei più importanti artisti indiani, questa terza edizione della biennale è curata dall’artista Sudarshan Shetty, le cui opere sono state esposte alla Tate e al Guggenheim. Tra i cento artisti in mostra, molti gli autori non indiani, come AES+F, Eric Van Lieshout, Gary Hill, Liu Wei, Eva Schlegel, Latifa Echakhch, Pawel Althamer e il pittore italiano Daniele Galliano.

La svalutazione attuata in India a novembre, quando le banconote da 500 e mille rupie sono state improvvisamente ritirate dalla circolazione dal governo e sostituite solo in piccola parte, ha reso questo appuntamento una vera e propria sfida per visitatori, artisti e organizzatori. Ma la mostra ha ricevuto una spinta decisiva quando, nel corso dell’apertura ufficiale, lo Stato ha promesso 1,1 milioni di dollari e il sostegno per una sede permanente, la somma più alta mai devoluta a un evento artistico dal Governo indiano. Il viceministro di Kerala, Pinarayi Vijayan, leader del Fronte della sinistra democratica e da lungo tempo segretario del partito comunista indiano di Kerala, ha detto che la Biennale è in sintonia con la storia stratificata di Kochi, insediamento arabo, cinese, ebraico, portoghese, olandese, inglese e di altre diverse comunità di migranti indiani. Shetty spera che i visitatori raggiungano le 500mila presenze, grazie anche alla fiera di arte indiana di Nuova Delhi del prossimo febbraio. «Durante i 108 giorni della manifestazione, gli artisti realizzeranno numerose opere, compreso un romanzo scritto dal vivo sulle pareti della città, spiega il curatore. Non riesco a immaginare lo stesso livello di partecipazione a Nuova Delhi o a Mumbay».

Tra le opere esposte nella storica città portuale di Kochi, famosa per i fiumi e gli stagni, «The sea of pain», un lago profondo pochi centimetri realizzato dal poeta cileno Raúl Zurita, che i visitatori possono attraversare a piedi, omaggio a Galip Kurdi, fratello di Alan Kurdi, il rifugiato siriano il cui corpo fu ritrovato su una spiaggia turca. Anche Galip e la madre persero la vita in mare.

L’artista indiana Yardena Kurulkar propone «Kenosis», una stampa in 3D del suo cuore in terracotta, fotografato e dissolto in acqua. L’anno scorso l’opera le è valsa il Blake Prize australiano. La Kurulkar espone anche un’altra potente nuova opera sulla vita e la morte, «Taphephobia», unghie di porcellana bianca che escono da una scrivania. L’artista e compositrice anglo-finnica Hanna Tuulikki si è allenata con un danzatore khuttiyatam per creare un’ipnotica opera video in tre parti raffiguranti gli occhi, le labbra e il corpo dell’artista. Molti artisti espongono il loro lavoro in edifici d’epoca pittoreschi e talvolta diroccati. Il pittore indiano Praneet Soi, che vive ad Amsterdam, ha realizzato in una storica trading house sculture in fibra di cocco, un materiale molto impiegato dalle industrie tradizionali di Kochi. 

Tra le performance proposte, «Rehearsing the Witness» di Zuleikha Chaudhari, incentrata su un celebre processo legale degli anni ’30 del Novecento riguardante un uomo che sosteneva di essere l’erede al trono di uno Stato del Bangladesh di cui si erano perse da tempo le tracce.

Nel suo progetto «Concocation», l’artista lettone Voldemãrs Johansons ha dotato i conducenti di risciò di clacson che producono strani rumori, per accendere la città di una «tavolozza acustica». Date le molte performance, tra cui una a tema politico ispirata dai poeti Dalit o «intoccabili», sembra di trovarsi a un festival piuttosto che in una tradizionale biennale di arti visive. Shetty spiega di aver iniziato la sua programmazione con «molti poeti e scrittori che propongono modi alternativi di vedere le cose e aprono altre finestre e porte per guardare i limiti dell’arte contemporanea».

Fino all’ultimo minuto prima dell’inaugurazione la biennale ha dato l’impressione di un work in progress. Alla vigilia dell’apertura, dedicata alla stampa e ai media, gli operai stavano ancora lavorando intorno a una gigantesca piramide di sterco di vacca, l’installazione del poeta sloveno Aleš Šteger. Lo scultore di Edimburgo Jonathan Owen, tra i quattro artisti scozzesi invitati, era presente mentre una scultura alla quale ha lavorato per più di due mesi apposta per l’evento, veniva fatta cadere per terra. Solo due degli otto disegni di Charles Avery sono riusciti a passare la dogana indiana in tempo per il giorno di apertura. Anche se «incredibilmente frustrante», Avery ha lodato la visione curatoriale della biennale: «Sembra Venezia. C’è la storia del mondo, la storia della città. Non si espone in un cubo bianco ma nelle case. È come una storia d’amore con l’aggiunta dell’arte».

Tim Cornwell, 14 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

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