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Una veduta dell’allestimento della mostra «Peter Doig: House of Music» nella Serpentine South

Foto Prudence Cuming Associates. © Peter Doig. All Rights Reserved and Serpentine

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Una veduta dell’allestimento della mostra «Peter Doig: House of Music» nella Serpentine South

Foto Prudence Cuming Associates. © Peter Doig. All Rights Reserved and Serpentine

Peter Doig: musica per i vostri occhi

Il nuovo progetto dell’artista scozzese trasforma le Serpentine Galleries di Londra in uno spazio di ascolto: i suoi dipinti sono accompagnati da brani musicali trasmessi da due set di rari altoparlanti analogici restaurati. Il curatore Hans Ulrich Obrist intervista l’artista

Hans Ulrich Obrist

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Fino all’8 febbraio 2026 le Serpentine Galleries di Londra presentano la mostra «Peter Doig. House of Music», un nuovo progetto di uno dei più importanti artisti britannici contemporanei, che alla Serpentine South espose per la prima volta nel 1991 come finalista del Barclays Young Artist Award. La mostra, che propone un accostamento dei dipinti di Peter Doig (Edimburgo, 1959) con il suono, è curata in stretta collaborazione con l’artista da Natalia Grabowska, curatrice generale, architettura e progetti site specific, con Lizzie Carey-Thomas, direttrice dei programmi e curatrice capo, Alexa Chow, assistente curatrice delle mostre, e Hans Ulrich Obrist, direttore artistico delle Serpentine Galleries. La rassegna sottolinea l’importanza di altre discipline nella pratica di Doig, tra cui la musica e il cinema, oltre all’influenza dei luoghi di aggregazione comunitaria e di scambio creativo. Concepita come un ambiente multisensoriale, «Peter Doig. House of Music» trasforma la galleria in uno spazio di ascolto, riunendo i dipinti recenti dell’artista e il suono trasmesso attraverso due set di rari altoparlanti analogici restaurati Klangfilm Euronor in legno degli anni Cinquanta ad alta fedeltà originariamente progettati per cinema e grandi auditorium. La musica trasmessa è stata selezionata dall’artista e proviene dal suo vasto archivio di dischi in vinile e cassette. Il titolo «House of Music» fa riferimento al testo della canzone del 2011 «Dat Soca Boat» di Shadow, musicista calypsonian di Trinidad che Doig ammira e ha raffigurato nei suoi dipinti. La domenica, lo spazio sarà animato da Sound Service, una serie di sessioni di ascolto dal vivo e di persona, durante le quali musicisti e artisti tra cui Nihal El Aasar, Olukemi Lijadu, Ed Ruscha, Samuel Strang e Duval Timothy suoneranno brani delle loro collezioni musicali su impianti analogici. Sound Service è concepito come parte integrante del progetto che mira ad ampliare i registri dell’esperienza della mostra, a promuovere il dialogo attraverso l’ascolto condiviso e a costruire un paesaggio sonoro di Londra, ampliando i temi della mostra: il suono come memoria, l’ascolto condiviso come momento di aggregazione, l’altoparlante come scultura e conduttore. Le serate di Sound Service inviteranno ospiti speciali a condividere i loro brani selezionati e campioni audio rispondendo l’uno all’altro in scambi acustici nuovi e inaspettati davanti a un pubblico dal vivo. Tra i partecipanti ci saranno Dennis Bovell, Lizzi Bougatsos, Brian Eno, Andrew Hale, Linton Kwesi Johnson. Il programma dal vivo è cocurato con Kostas Stasinopoulos.

Quello che segue è un ampio stralcio dell’intervista tra Peter Doig e Hans Ulrich Obrist che, insieme a un testo di Michael Bracewell sull’intersezione tra musica e arti visive, di Laurence Passera sullo sviluppo dei sistemi audio per i teatri, a poesie di Linton Kwesi Johnson e Derek Walcott, è inclusa nel catalogo che accompagna la mostra. 


Hans Ulrich Obrist: (…) Mi hai detto che al liceo tu e i tuoi amici eravate interessati principalmente alla musica. Com’è iniziato tutto per te? Come sei arrivato alla musica e all’arte?
Peter Doig: Penso che la musica sia la prima cosa per la maggior parte dei giovani. (…) Sono cresciuto a Trinidad e lì ho avuto il mio primo approccio con la musica.

(…) Ho letto che hai lasciato la scuola presto e hai lavorato su una piattaforma petrolifera in Canada. Hai conservato un album di schizzi di quel periodo. (…) Che cosa ti ha spinto a disegnare? (…)
(…) Mio padre e mia madre erano interessati all’arte, ma non ci hanno mai portato in giro per gallerie o musei. È stata una cosa che ho cercato da solo, o con gli amici, soprattutto durante l’adolescenza. Ad esempio, ho guidato da Toronto a Buffalo, New York, per visitare l’Albright-Knox Museum. Poi, lavorando sulle piattaforme petrolifere nel Canada occidentale da adolescente, ho capito che non ero tagliato per quel tipo di vita. (...) Ho iniziato a tenere un album di schizzi e ho deciso di provare ad andare alla scuola d’arte e seguire quella strada. Sapevo di voler lasciare Toronto non appena ci sono arrivato. Non sono cresciuto lì, non provavo alcun legame con quella città. Lì ho stretto delle belle amicizie, ma molti di noi volevano andarsene. Alcuni volevano andare a New York, io volevo andare a Londra.

Com’è successo? Dal punto di vista artistico, New York era l’epicentro in quel periodo.
La mia scelta aveva più a che fare con la musica. Londra mi sembrava più eccitante dal punto di vista post punk; in quel momento sentivo un forte legame con la musica britannica e questo mi ha spinto in quella direzione. (...) Detto questo, ho visitato New York regolarmente tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. (...) Ho vissuto esperienze fantastiche a New York e la mia pittura di allora era influenzata da ciò che vedevo lì e da ciò che stava emergendo dagli Stati Uniti in generale.

Quale diresti che è la prima opera nel tuo catalogo ragionato, quella che, secondo te, mostra dove ha avuto inizio il tuo linguaggio artistico?
Probabilmente sarebbe uno dei dipinti che ho realizzato dopo essere tornato al college nel 1989, quando sono rientrato a Londra dalla mia seconda esperienza di vita in Canada. Ho frequentato il Chelsea College of Art and Design e nel 1990 ho realizzato un dipinto intitolato «Hitchhiker». C’è una serie di lavori precedenti che mi sembrano adolescenziali, imbarazzanti, anche se con l’età ho iniziato ad apprezzarli di più. Ricordo che il pittore e scultore scozzese Bruce McLean (nato nel 1944) era un tutor ospite quando frequentavo la Saint Martins School of Art. Non insegnava regolarmente, ma mi sosteneva; venne nel mio studio, vide un dipinto e mi disse: «Lascialo stare, è finito. Lascialo stare».

(...) Quando, per te, un dipinto è finito?
È una domanda difficile per la maggior parte degli artisti. Quando è finito un dipinto di Paul Cezanne? Quando è finito un dipinto di Pablo Picasso? Forse non era così difficile per Jean-Léon Gérôme. Non lo so. È finito quando sembra giusto. Questa è stata la cosa importante che mi ha fatto capire McLean quando mi ha detto di «lasciarlo stare». Ho capito che per lui era finito, anche se per me non lo era ancora.

All’epoca partecipavi alla scena musicale londinese. Eri anche legato alla scena dei club che gravitava attorno allo stilista e artista Leigh Bowery e lavoravi all’English National Opera (Eno). Puoi parlarci di questo in relazione alla mostra alle Serpentine Galleries?
Ho conosciuto Leigh attraverso un nostro comune amico, Angus Cook, e attraverso il marchio di moda britannico BodyMap. La mia prima moglie aveva frequentato l’università con BodyMap e lavorava per loro. Era un piccolo mondo e Leigh sembrava essere ovunque. Quell’ambiente mi appariva più interessante della scena artistica dell’epoca. Le inaugurazioni delle mostre d’arte erano davvero aride e piuttosto noiose. Ho sempre pensato che il ballerino e coreografo scozzese Michael Clark (nato nel 1962) fosse uno degli artisti più affascinanti della nostra generazione. La musica, i ballerini, le sue collaborazioni con Leigh, BodyMap, Trojan e Charles Atlas (nato nel 1949) erano straordinari. Era il Ballets Russes della nostra generazione. 

(…) Il cinema influenza spesso la tua pratica artistica. Sono curioso di sapere che cosa è successo una sera del 1987, quando sei tornato a casa e hai visto la fine di «Venerdì 13» (1980), un film horror che stava guardando tua sorella minore.
Avevo lasciato Londra per un po’ ed ero tornato in Canada, dove lavoravo nel fienile dei miei genitori in Ontario. Notai che le mie due sorelle minori stavano guardando «Venerdì 13» (…). All’inizio non prestai attenzione, ma poi diedi un’occhiata e vidi una scena con una canoa che galleggiava su un lago. Prima di allora non mi ero mai interessato a quel tipo di campy horror, non ci avevo mai pensato molto. (…) Dopo che finirono di guardarlo, tornai indietro e riguardai quella scena più volte. Mi resi conto che aveva uno strano legame con Edvard Munch. (…) C’era qualcosa nel tono e nell’atmosfera che mi ricordava il suo lavoro. È stato inaspettato trovare quel tipo di sensazione inquietante e pittorica in un film horror trash. La violenza nel film è quasi farsesca, ma quel momento era diverso. Avevo con me la macchina fotografica (...) quindi ho scattato una serie di foto di quella scena della canoa. Quando ho ritirato le diapositive, non erano come nulla che avessi dipinto prima, ma ho pensato che avrei dovuto provarci. (...)

Hai usato sia fotografie trovate sia fotografie scattate da te per i tuoi dipinti?
Sì, alcune trovate, alcune mie e alcune tratte da film. (...)

Quando ci siamo incontrati per la prima volta nel 1992, ricordo di averti chiesto se si trattasse di fotopittura (...). Hai risposto che non era fotopittura e che stavi cercando di allontanarti dalle fotografie.
Alcuni dei miei dipinti sono realizzati senza fotografie; ad esempio, «Night Balcony» (2015) (...). Altri hanno elementi fotografici, ma tutto il resto è frutto dell’immaginazione. I dipinti dei leoni, ad esempio, utilizzano fotografie che ho scattato ai leoni allo zoo di Port of Spain, Trinidad, insieme a riferimenti a Caravaggio e a Collioure, il villaggio di pescatori del Mediterraneo nel sud della Francia dov’è nato il Fauvismo. In altre parole, sono ancora legato alla fotografia, ma c’è una lotta. Quando frequentavo il Chelsea College, c’erano diversi pittori che si concentravano sulla fisicità della pittura. (...) Ero quasi contrario a questo approccio. Volevo realizzare dipinti con qualsiasi materiale avessi a disposizione. (...) Al Chelsea ho ceduto un po’. Il dipinto «Swamped» (1990), ispirato al film «Venerdì 13», è stato il primo tentativo di realizzare qualcosa di «pittorico».

Peter Doig, «Painting for Wall Painters (Prosperity P.o.S.)», 2010-12. © Peter Doig. All Rights Reserved

Hai esposto per la prima volta alle Serpentine nel 1991. Ho trovato nel nostro archivio il piccolo catalogo che accompagnava la mostra e nella tua sezione, accanto ai dipinti, c’era uno spartito musicale. Per la tua nuova mostra alle Serpentine Galleries riunirai musica e pittura per la seconda volta.
All’inizio degli anni Novanta c’erano molte parole associate alle opere d’arte. Gli artisti leggevano testi teorici e citavano filosofi. Volevo qualcosa di diverso che avesse un legame con quello che stavo facendo e con le sensazioni che volevo che i dipinti trasmettessero. La musica è una canzone indigena annotata in Bury My Heart at Wounded Knee: An Indian History of the American West (Holt, Rinehart & Winston, 1970) di Dee Brown; mi sembrava molto commovente, molto reale. Sentivo che la gente l’avrebbe capita. Li avrebbe fatti riflettere. (…)

Nel 1998 hai esposto i tuoi dipinti insieme alla tua collezione musicale alla Whitechapel Art Gallery. (...) Hai sempre collezionato dischi?
Compro dischi da quando ero molto giovane. (...) Ricordo chiaramente la prima volta che ho comprato un disco con i miei soldi. Eravamo in uno dei primi centri commerciali della zona del Quebec in cui vivevamo. Camminavo un po’ indietro rispetto a mia madre, ho guardato per terra e ho visto due banconote da cinque dollari. (...) All’improvviso avevo dieci dollari, che erano molti soldi alla fine degli anni Sessanta. Ho raccontato a mia madre quello che era successo, poi sono entrato da Woolworth e ho comprato alcuni dischi dei Beatles. Quello è stato l’inizio della mia collezione di dischi. (...)

Sei tornato a Trinidad nel 2000 e hai gestito Studiofilmclub dopo esserti trasferito lì con la tua famiglia nel 2002, il che ci porta al sound system.
Mi sono trasferito a Trinidad nel 2000 per una residenza artistica con Chris Ofili, Lisa Brice e Andrew Miller. La mia famiglia aveva vissuto lì nel 1962, l’anno in cui Trinidad ottenne l’indipendenza. (...) Tornare trent’anni dopo come uomo bianco ha portato con sé un senso di curiosità e una certa incertezza. (...) Il legame che ho sentito non era solo nostalgico, ma radicato nel presente. Ho stretto nuove amicizie, tra cui quella con l’artista Che Lovelace, con cui ho poi fondato il cineclub, mentre Lisa Brice era molto legata all’artista Embah (Emheyo Bahabbah, 1937-2015, Ndr). (...) La seconda fase è iniziata quando sono tornato con la mia giovane famiglia. (...)

Questo ti ha aiutato a integrarti nella società locale?
Sì. Si entra in contatto con le persone soprattutto quando si hanno figli in età scolare. È così che è nato il cineclub. Eravamo appena arrivati; ci siamo trasferiti a Port of Spain all’inizio di agosto del 2002. (...) A novembre si è tenuto il Kairi Film Festival, dedicato ai film dei Caraibi. Sono andato a diverse proiezioni tenutesi in fantastici cinema storici nel centro di Port of Spain. (...) Il cinema è presente a Trinidad sin dagli albori di questo mezzo di comunicazione. Sebbene sull’isola non ci sia una forte tradizione cinematografica, esiste una ricca cultura del cinema. Se ne vedono gli echi nella cultura del Carnevale, per esempio (...). Mi sono chiesto: dove vanno queste persone quando il festival finisce? All’epoca non c’erano cinema d’essai e la cultura cinematografica alternativa o indipendente era praticamente inesistente in senso formale. (...) Ho iniziato a chiedermi se fosse possibile costruire qualcosa di simile a Trinidad, anche se su scala molto più piccola. Uno dei film che ho visto al festival era «Hard Road to Travel: The Making of The Harder They Come», un documentario sulla realizzazione dell’iconico film giamaicano «The Harder They Come» (1972). Rimane una delle opere più significative e amate della regione, ma non è mai stato trasmesso dalla tv mainstream a Trinidad, probabilmente perché considerato troppo violento. All’epoca non c’erano negozi di dvd a Port of Spain e, sebbene fosse ancora possibile noleggiare videocassette vhs, un film come quello era difficile da trovare. Sono riuscito a farmi spedire un dvd e «The Harder They Come» è diventato il primo film proiettato al cineclub. Un altro fattore chiave era lo spazio. Avevo uno studio incredibile a Port of Spain. Chris, Lisa, Andy e io eravamo andati inizialmente per fare una residenza artistica in un posto chiamato Cca7 (Caribbean Contemporary Arts), che si trovava nell’edificio 7 di un complesso industriale. Ognuno di noi aveva un piccolo studio e dietro c’era un vasto magazzino vuoto di circa mille metri quadrati. (…) Era troppo grande per dipingere, ma si trovava in una zona vivace e un po’ malfamata della città ed era perfetto per proiettare film.

(...) Il cinema e il suono sono per te una distrazione o una deviazione, o forse una realtà parallela? 
Probabilmente sono sia una distrazione sia una realtà parallela, perché sono sempre stati presenti. La mia vita è piena di distrazioni, ma non le vedo come tali. È solo la vita: sai, ci si entusiasma per altre cose. Ho capito abbastanza presto che non sono come Frank Auerbach. Non sono quel tipo di artista.

Intendi uno che dedica ogni singolo giorno, sette giorni su sette, al suo lavoro?
Esatto. Io non sono così. (...)

Ascolti musica mentre lavori?
Sì, sempre.

Che cosa stai ascoltando in questo momento? 
Ascolto molta musica country. C’è un podcast di Tyler Mahan Coe chiamato «Cocaine & Rhinestones». È fantastico, mi ha fatto tornare ad ascoltare musica country. (…)

Diresti che il tuo rapporto con la musica è cambiato durante il tuo soggiorno a Trinidad? 
È cambiato radicalmente (…). Avevo una conoscenza superficiale della musica di Trinidad dal mio passato, ma quando sei lì, la musica è ovunque. È alla radio, nei negozi e nelle auto. Passeggiando per i quartieri si sentono le steel band che provano. Soprattutto nel periodo che precede il Carnevale, quasi ogni sera c’è un grande concerto di soca (fusione di musica soul e calypso, Ndr). L’intera società vive di musica. (...) Molti artisti sono profondamente coinvolti nella musica, sia come ascoltatori sia come autori. Mi entusiasma l’idea di invitare persone diverse alla mostra alla Serpentine per suonare la musica che amano o forse quella che hanno composto loro stessi.

(...) Quando ha iniziato a comparire la musica nei suoi dipinti? Quale diresti che è il primo dipinto con un impianto audio o uno strumento musicale?
È successo quando frequentavo la Saint Martins all’inizio degli anni Ottanta, agli albori dell’hip hop come forma registrata. L’hip hop è stato fondamentale per lo sviluppo dei miei dipinti. Ero entusiasta di questa nuova forma di appropriazione e collage, dei testi e dell’umorismo. L’influenza della musica è stata costante. (...) Le canzoni sono molto visive, come «Pocahontas» di Neil Young o quelle di Joni Mitchell. Mi interessa ciò che evocano.

Per la mostra abbiamo selezionato dipinti realizzati dopo il 2000 che hanno un legame con la musica. Sembra che da quell’anno nelle tue opere abbiano iniziato ad apparire più riferimenti musicali. Una delle prime è «Music of the Future» (2002-07). Puoi parlarci della genesi di quel dipinto?
Quando mi sono trasferito a Trinidad con la mia famiglia, era per realizzare una serie di dipinti per una mostra che si sarebbe tenuta nel 2004 alla Pinakothek der Moderne di Monaco. (...) Sono andato a Trinidad per creare quella serie di opere, ma, mentre ero lì, mi sono trovato di fronte a un mondo completamente nuovo. Una delle prime cose che ho notato è stata la scarsità di lampioni. Quando il sole tramontava, diventava davvero buio. Nel cuore di Port of Spain c’è un vasto parco chiamato Savannah. È un campo aperto punteggiato di alberi, non proprio selvaggio, dove la gente fa jogging, si riunisce e socializza. (...) Volevo catturare questo contrasto tra l’attività vivace e la quasi totale assenza di luce in un dipinto. Il titolo «Music of the Future» è un omaggio alla steel band, un’invenzione iconica di Trinidad. (...) La creazione dello steel drum è legata alla scoperta del petrolio e alle restrizioni imposte agli africani del luogo, a cui non era permesso suonare i loro tamburi tradizionali. Così, hanno dato sfogo alla loro creatività e hanno riutilizzato materiali di scarto come barattoli di biscotti e altri rifiuti, trasformando i rifiuti dell’industria petrolifera in qualcosa di straordinario. Negli ultimi settant’anni, si è evoluto da strumento solista a strumento suonato da piccoli ensemble e infine da orchestre complete. Il suono dello steel drum è magico, riempie l’aria in modo ipnotico, soprattutto negli spazi all’aperto. Se quel dipinto avesse una colonna sonora, sarebbe una steel band. I dipinti che ho realizzato in quel periodo, tra cui «Pelican (Stag)» (2003), «Lapeyrouse Wall» e «Red Boat (Imaginary Boys)» (entrambi del 2004), si sono rivelati un corpus di opere importante per me. Molti di essi sono legati alla musica.

Peter Doig, «Maracas», 2002-08. © Peter Doig. All Rights Reserved.

Hai detto che «Music of the Future» è quasi una versione negativa di «Olin MKIV» (1995).
«Olin MKIV» è molto diretto, quasi fotografico. mentre «Music of the Future» va nella direzione opposta. Non è esattamente il negativo del dipinto precedente, ma è una sorta di contrappunto. Quando sono andato a Trinidad per realizzare questi dipinti, non ero del tutto sicuro di cosa fosse appropriato dipingere. Qui a Londra c’è un negozio di seconda mano che aveva una pila di vecchi libri e cartoline. Mi sono imbattuto in una pila di cartoline in bianco e nero colorate a mano provenienti dall’India. Almeno tre dei dipinti che ho realizzato nel 2002-04 erano basati su quelle cartoline. Mi sembravano in qualche modo un sostituto di Trinidad, o un modo per avvicinarmi indirettamente ad essa. Poiché le ho trovate a Londra, e non a Trinidad, mi sono sembrate una via d’accesso. Mi hanno dato la distanza necessaria. «Pelican (Stag)» e «Music of the Future» provengono entrambi da quella stessa serie di cartoline. Una menzionava un luogo chiamato Ooty Boathouse, un posto nel Tamil Nadu, in India, dove la gente beve tè in riva a un lago artificiale. In «Music of the Future», Ooty Boathouse si trasforma nella savana di Trinidad, anche se ho mantenuto l’acqua nella scena. (...)

Puoi parlarmi dei tuoi dipinti di altoparlanti? Questi iniziano con il dipinto «Maracas» (2002-08).
Quando siamo andati a Trinidad per la residenza artistica, abbiamo trascorso molto tempo in giro, poiché gli studi non erano ancora finiti quando siamo arrivati. In pratica, abbiamo (...) trascorso la maggior parte del tempo guidando, scattando fotografie, girando filmati e assorbendo il più possibile. (...) Ricordo molto chiaramente di essere andato a Maracas Bay, la spiaggia pubblica più vicina a Port of Spain. All’estremità della spiaggia era stato installato un enorme impianto audio con altoparlanti neri svettanti che sono diventati il modello per il mio impianto audio immaginario. C’era un ragazzo indiano con i capelli lunghi in piedi su una pila di altoparlanti, che indossava un abito incredibile: una camicia gialla abbottonata e pantaloncini larghi. (…) Ho usato quella figura per la prima volta in un poster che ho realizzato per la proiezione del film «Pure Chutney» (1999). (…)

Hai anche realizzato dei dipinti in cui compaiono strumenti musicali. 
Ho dipinto molte volte l’artista e musicista Embah. Non si esibiva nei club, ma aveva sempre con sé il suo cuatro, una piccola chitarra a quattro corde. (...) Quando è venuto a Parigi per la mia mostra al Musée d’Art moderne de Paris nel 2008, ha portato con sé il cuatro. Lo tirava fuori e iniziava a suonare ovunque fossimo, a volte in modo inaspettato. (...)

Che cosa ti ha spinto a tornare a Londra?
Siamo tornati a Londra ormai da diversi anni, anche se non era qualcosa che avevamo pianificato. La mia ex moglie è tragicamente scomparsa alla fine del 2019. Viveva a Trinidad con due dei miei figli più grandi. Dopo la sua morte, abbiamo dovuto decidere dove trasferirci come famiglia; siamo piuttosto numerosi. Le mie tre figlie maggiori vivevano già a Londra per lavoro e studio, quindi trasferirsi tutti a Trinidad non sembrava pratico. Neanche New York sembrava la scelta giusta: ci sembrava sconosciuta, aliena. Londra, invece, ci faceva sentire a casa. (...) Mi piace il fatto che si possa essere circondati da milioni di persone eppure passare giorni interi senza vedere nessuno. (...)

In una lettera ad Angus Cook, hai detto che a Trinidad la maggior parte delle tue opere metteva in discussione la tua presenza lì. Ora che sei a Londra è diverso.
Molto diverso. Quando sono andato a Trinidad, ho portato con me quelle cartoline di proposito, perché mi sentivo più a mio agio a creare dipinti ispirati ad esse piuttosto che alle mie esperienze immediate e all’ambiente circostante. Ora il mio lavoro sta entrando in una nuova fase (...). Alcuni dei dipinti con i leoni, ad esempio, sono stati una riflessione critica non solo su Trinidad, ma anche sui residui dell’imperialismo (...)

Hai detto che sono stati ispirati dal grande muro di una prigione e dall’idea del leone in gabbia e delle persone che non vivono in libertà (...). Puoi dirci qualcosa di più sui dipinti con i leoni, su come si sono evoluti e su quelli nuovi a cui stai lavorando per la mostra?
La prigione di Port of Spain si trova proprio nel centro della città e occupa un intero isolato. (...) I muri esterni sono di colore giallo senape (...). La prigione fu costruita come guarnigione dagli inglesi alla fine del XVIII secolo e attualmente funge da principale carcere di custodia cautelare della città. È un duro promemoria: questo è il posto dove finisci se superi il limite. È un posto in cui nessuno vorrebbe trovarsi.

È molto visibile?
La prigione è molto presente nel paesaggio urbano e alcune delle migliori scuole di Port of Spain si trovano nelle vicinanze. (...) A volte si sentono rumori provenire da lì e le persone all’interno della prigione sentono che cosa succede fuori, specialmente durante il Carnevale. (...) Si può immaginare che cosa significhi essere rinchiusi in quell’ambiente affollato e teso, mentre fuori si svolge una festa senza sosta che dura giorni. Deve essere un’esperienza molto difficile e surreale. Il «Leone di Giuda» era un’immagine comune dipinta su molte pareti della prigione. C’era un artista locale di nome Ghost, amico di alcuni miei amici, purtroppo morto a causa della tossicodipendenza, che ha creato incredibili murales in tutta Port of Spain, spesso raffiguranti leoni e uomini rasta. Quei dipinti erano ovunque in città. Nelle vicinanze c’è uno zoo con leoni in gabbia e l’architettura dello zoo ricorda quella della prigione. Tutto questo ha alimentato il mio pensiero mentre dipingevo i leoni. In un certo senso, li stavo umanizzando. Ci sono anche immagini di leoni più giocose, che si collegano allo spirito del Carnevale. (…)

Che consiglio daresti a un giovane artista?
Gli direi di non lasciarsi influenzare dalle tendenze del momento. Di rimanere fedele al proprio percorso. Quando insegnavo, dicevo sempre ai miei studenti: «Se qualcosa è veramente importante per te, nessuno può portartela via». (…) Il mio consiglio è semplice: mantieni un approccio personale.

Hans Ulrich Obrist, 23 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

Peter Doig: musica per i vostri occhi | Hans Ulrich Obrist

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