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Perché il mercato del lavoro nei beni culturali fa piangere

Gli Enti pubblici per primi non hanno idea di chi debba lavorare nei musei e con quali competenze. Non esiste neppure una definizione riconosciuta

Cristiano Croci

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Gli Enti pubblici per primi non hanno idea di chi debba lavorare  nei musei e con quali competenze. Professionisti museali, operatori museali oppure museologi? Non esiste neppure una definizione riconosciuta.

Già questo giornale ha affontato la difficile realtà di chi, come me, intraprende un percorso formativo per diventare professionista dei beni culturali. Ho recentemente scritto dell’enorme discordanza che in questo settore esiste fra il mercato della formazione e quello del lavoro. Centinaia di professionalità e specializzazioni offerte a fronte di nessuna domanda. Parlavo dell’uso tossico di tirocini e volontariato, delle enormi differenze che possiamo trovare oltre confine e di come il nostro Paese sia in sostanza rimasto arenato crogiolandosi nel suo passato.

La recente inchiesta pubblicata dal collettivo «Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali» non ha fatto che avvalorare le mie affermazioni sul pietoso stato in cui versa il settore. Su circa 1.500 professionisti interrogati il 50% degli intervistati guadagna meno di 8 euro l’ora. L’80% denuncia paghe che raggiungono, al massimo, i 15mila euro annui. La maggior parte è inquadrata con un contratto di multiservizi, cioè una tipologia relativa al personale che si occupa di pulizie e manutenzione. Un contratto per i lavoratori della cultura esiste dal 1999 e si chiama Federculture, ma è applicato solo nel 7,2% dei casi e già averne uno sarebbe qualcosa: il 78% di coloro che hanno una partita Iva l’hanno aperta non per libera scelta, ma perché obbligati.

Qual è la ragione di questa catastrofica situazione? Citerò due elementi (come spunti di riflessione e senza nessuna pretesa di compiutezza) che possono essere considerati per analizzare il fenomeno: il primo è rappresentato dall’ambiguità e la debolezza a livello normativo e istituzionale delle professioni nel mondo culturale. Nel campo dei musei, ad esempio, già nel 2006 Icom individuava, attraverso la Carta nazionale delle professioni museali, ben 20 tipologie di profili diversi, divisi in quattro ambiti, ognuno con mansioni e competenze diverse.

Il bando uscito recentemente per l’assunzione di 1.052 unità di personale al Mibact è stato messo sotto attacco perché le 20 professionalità snocciolate da Icom sono di fatto inglobate nei due soli profili previsti dalle direttive ministeriali: l’assistente alla fruizione, all’accoglienza e alla vigilanza (profilo oggetto del bando) e il funzionario con posizione dirigenziale. Per ciò che riguarda il primo profilo, le critiche ne prendono di mira fondamentalmente il lunghissimo mansionario, il quale contiene attività sia specialistiche che non, ma non richiede alcun titolo universitario come requisito d’accesso.

Per quanto riguarda il secondo profilo, che è suddiviso in ambiti disciplinari e non per specializzazioni professionali, si potrebbe obiettare che tra i vari ambiti non risulta quello museologico. E anche quando un’amministrazione pubblica come quella del Comune di Como sembra andare in controtendenza, pubblicando un avviso di selezione per conservatore museale (quindi un profilo specialistico), si scopre che il requisito unico per accedere alla selezione è la laurea in Storia moderna o contemporanea. Sono gli Enti pubblici i primi a non aver idea di chi debba lavorare in un museo e di quali competenze debba aver bisogno.

La stessa confusione e ambiguità negli ambiti disciplinari legati al mondo delle professioni museali le troviamo già a partire dalle Università. Il nostro Paese resta uno dei pochi a non avere fra i propri corsi di laurea i cosiddetti Museum studies, in cui l’oggetto di studio non è focalizzato sulla Storia dell’arte, sull’Archeologia, l’Antropologia o le Scienze naturali, ma sui musei stessi, formando persone qualificate a lavorare in quell’ambito (Professionisti museali? Operatori museali? Museologi? Non abbiamo neanche un termine) con il compito di «progettare» come sintetizza la presentazione del proprio corso di laurea della University of San Francisco «spazi per il coinvolgimento delle comunità e per il pubblico dialogo». Una visione innovativa, lontana dalla nostra.

Questo mi porta verso il secondo elemento che vorrei aggiungere per riflettere sull’arretratezza strutturale del settore dei beni culturali, cioè uno storico approccio nei confronti del patrimonio, tuttora radicato nelle teste e nelle dirigenze di questo mondo. Mentre nel secolo scorso in Occidente prendeva piede un nuovo modo di concepire, tutelare e valorizzare il patrimonio, l’Italia rimaneva legata a posizioni conservative, intrappolata da quella visione estetizzante data all’arte dall’Idealismo di Croce e Gentile, universo teorico nel quale verrà poi formulata la Legge Bottai del ’39, prima legge moderna dedicata alla tutela e alla conservazione, ancora oggi assolutamente valida nei suoi presupposti concettuali.

Ma già nel Dopoguerra il dibattito internazionale, guidato dai tavoli delle organizzazioni sovranazionali come Icom e Unesco andava in direzioni diverse. Il patrimonio culturale non si doveva intendere semplicemente come un gruppo più o meno numeroso di oggetti di valore da conservare e proteggere, accessibili solo a una cerchia ristretta di persone con alti capitali economici e culturali. La trascendentale definizione gentiliana di arte come «momento dello spirito», al quale era necessario accedere e che era possibile fruire solo attraverso una sorta di dotta «contemplazione estetica», non era più adatta.

L’arte, come la cultura, non doveva più essere considerata come una «monade» immutabile ed esistente in sé, ma come un prodotto umano a tutti gli effetti, frutto dell’agire e del pensare, dal quale attingere per produrre altra cultura, in un processo costante, mutevole, sensibile alle necessità e ai cambiamenti sociali. Piano piano veniva maturata l’idea che il patrimonio culturale non debba rappresentare un elemento di distinzione (come direbbe il sociologo Pierre Bourdieu) ma una risorsa accessibile a tutti, strumento di pace e democrazia. Più che come qualcosa da apprezzare per le sue qualità formali, l’uso del bene culturale doveva essere ripensato come il tentativo di immaginare e creare un mondo più giusto, più equo, più consapevole.

In questo quadro, che restituisce una visione in qualche modo «desacralizzata», sembra quasi più comprensibile e meno blasfemo vedere associate alla cultura parole come gestione manageriale, valutazione della performance, marketing territoriale e, perché no, privatizzazione, se fatta con coscienza, obiettivi specifici e, soprattutto, professionalità e competenza. Il dibattito sul rapporto fra turismo e beni culturali, ad esempio, si adatta bene a questo discorso. In un’ottica di «nuova visione» del patrimonio, il turismo potrebbe essere considerato come una possibilità di ampliare il ventaglio dei pubblici e delle accessibilità, come strumento di diffusione culturale e non solo come un rischio o un pericolo.

Mi impressiona un po’ leggere un comunicato come quello che Italia Nostra ha diffuso lo scorso settembre a proposito del ritorno del turismo come competenza del Mibact. «L’accorpamento del Turismo all’Agricoltura alla nascita del governo giallo-verde, si legge nel comunicato, era stato salutato dalla neopresidente di Italia Nostra, Mariarita Signorini, come una buona notizia perché finalmente ridava dignità ai Beni culturali e recuperava l’originaria vocazione educativa voluta da Spadolini al momento dell’istituzione del Ministero».

In questa dichiarazione c’è molto di quel conservatorismo estetizzante a cui accennavo. Il comunicato continua facendo riferimento ai danni che il turismo di massa (apostrofato come «turismo selfie») ha portato a una città come Venezia. Nel comunicato non si fa menzione però che al di fuori delle tre o quattro realtà urbane colpite dai rischi del turismo di massa, c’è un intero Paese nel quale la penuria di visitatori è un continuo mantra. Che cosa c’è di meglio allora che la giurisdizione sul turismo di un Ministero consapevole dell’importanza del patrimonio, avente quindi facoltà di vigilare e di operare in maniera oculata per attrarre le grandi masse desiderose di selfie, e magari convogliarle in luoghi ancora sconosciuti ma non meno ricchi di patrimonio?

In questo approccio troppo stretto sull’aspetto conservativo e sacrale del nostro patrimonio, che lo considera più come una risorsa da «risparmiare» che da «investire», vedo annidato un altro degli elementi causa dell’arretratezza strutturale del settore dei beni culturali, che seppur in maniera indiretta, non permettono quella dinamicità necessaria a creare le condizioni economiche adatte allo sviluppo di un mercato del lavoro e di un futuro sicuro per il nostro patrimonio.

Cristiano Croci, 09 dicembre 2019 | © Riproduzione riservata

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