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Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoliQuello che si ripete a San Paolo, ogni fine settimana, è quello che di più vicino c'è al sentimento di «croce e delizia» dell'arte contemporanea: aperture che si susseguono per l'intero sabato e che mischiano tutte le carte: spazi indipendenti e atelier che di volta in volta si fanno teatro di eventi veri e propri, un po' come è stato pochi giorni fa per «Abraço», una ciclopica occasione per scoprire più di 400 artisti (si, avete letto bene) i cui lavori hanno sovraffollato gli spazi di Canteiro, associazione di artisti a Pinheiros, a due passi dalla nuova sede di Almeida & Dale, nella rua Fradique, ex sede di Millan, che nelle stesse ore ha aperto la personale «Viagem ao redor do meu quarto» del pittore Paulo Pasta (1959), uno dei nomi più importanti tra gli astrattisti brasiliani contemporanei, e che ha dato ufficialmente inizio alle attività dell'ultimo avamposto della galleria.
Ancora a Pinheiros, giusto per citare un altro spazio curioso, c'è Soda, piccolo ambiente gestito dagli artisti Silvia Jabali e Roberto Unter, che apre solo il venerdì e il sabato pomeriggio, offrendo ogni due settimane un progetto place specific senza limitazioni di generi e sorta.
Ma se seguire l'agenda unofficial e più underground di San Paolo può essere complicato (e molto rapido, per il continuo susseguirsi di eventi) non è trascurabile il programma ufficiale delle istituzioni, che in questo autunno brasiliano propongono, a vario titolo, alcune perle.
Ad esempio Pierre-Auguste Renoir, nel nuovo edificio Piero Maria Bardi del MASP, recentemente inaugurato: la mostra fa parte dei «Cinque saggi sul MASP» (fino al 3 agosto) messi in atto dal direttore Adriano Pedrosa per l'occasione. Questo omaggio al pittore francese, nato nel 1841 e figura cardine dell'Impressionismo, è decisamente imperdibile, non solo perché riunisce per la prima volta tutte le opere in collezione permanente al Museo de Arte de São Paulo (tra cui figura anche l'iconica «Rosa e Azzurro. Le ragazze Cahen d'Anvers», 1881, che ritrae Elisabeth e Alice, figlie del banchiere ebreo Louis Cahen d’Anvers, ndr), ma anche per un display espositivo decisamente originale: i dipinti di Renoir sono presentati su supporti realizzati con lastre metalliche riflettenti, concepiti dall’architetta Juliana Godoy, in dialogo con i cavalletti di cristallo di Lina Bo Bardi, sostituendo la base di cemento con quello che è un «panettone» in schiuma poliuretanica azzurra: puro succo di postmodernismo, mantenendo la proposta di presentare le didascalie sulla parte posteriore delle tele (come accade nei cavalletti originali, ndr), invitando il visitatore a vivere lo spazio a 360 gradi.

Isaac Julien (Lina Bo Bardi - A Marvellous Entanglement), 2019, stampa a getto d'inchiostro su carta Ilford gold fibre gloss, 90 x 110 cm. © Isaac Julien, Courtesy l'artista, Nara Roesler e Victoria Miro
Altra sezione non trascurabile é quella di «Um maravilhoso emaranhado», 2019, video installazione di Isaac Julien (1960), dedicata proprio alla figura di Lina Bo Bardi, e alle sue iconiche architetture brasiliane: il Teatro Oficina, il MASP, il SESC Pompeia a San Paolo, e il Museo de Arte da Bahia, a Salvador. E il «maravilhoso emaranhado», per Lina, era proprio l'intreccio del tempo, per connettere la storia dei luoghi con la contemporaneità e il futuro. E se Bo Bardi è architetta iconica, ancora di più lo sono, in questo momento storico, le attrici Fernanda Montenegro e Fernanda Torres, quest'ultima fresca di Oscar per l'attuazione nel film «Ainda estou aqui», che Julian coinvolge per impersonificare l'architetto nelle sue differenti età e, idealmente, nella sfida con e contro il tempo che appartiene alla progettazione.
Restando sull'iconica Avenida Paulista, vale la pena una visita a quella che è una selezione della collezione del Museo di Arte Moderna, la cui sede al Parco Ibirapuera in questo periodo è chiusa al pubblico per lavori di restauro programmati. Fino all'8 giugno «MAM São Paulo: encontros entre o moderno e o contemporâneo» è in scena nel Centro Culturale FIESP, investigando la produzione di oggi come un’evoluzione delle avanguardie moderniste, del costruttivismo post-bellico. In fondo, mentre in Europa le avanguardie dell'inizio del XX secolo hanno determinato il «contemporaneo», in Brasile il secolo scorso si è contraddistinto proprio per l'epopea modernista e, allo stesso tempo, per aver ignorato la produzione di artisti «popolari», come José Antonio da Silva o Heitor dos Prazeres, oggi reintegrati e parte di una revisione di quelli che sono stati i canoni della storia ufficiale dell'arte. Antonio Dias e Carmela Gross, Iole Saldanha e Iracema Arditi, Leonilson e Alfredo Volpi sono solo alcuni dei moltissimi artisti che si rincorrono nelle sale del FIESP: un'ottima immersione anche per chi abbia voglia di addentrarsi meglio in una cultura visualmente ricchissima ma, spesso e volentieri, confinata dentro il Paese.
A proposito di Alfredo Volpi, invece, merita una menzione speciale la personale (fino al 17 maggio) di Eleonore Koch (1926-2018), nella rinnovata Galeria Paulo Kuczynski, nome storico del mondo delle gallerie brasiliane, fin dal 1973.
«Não são coisas do cotidiano, só parecem» (Non sono cose quotidiane, solo lo sembrano, ndr) è il titolo di questa esposizione che mette in scena decine di disegni, bozzetti, studi e relativi dipinti, dell'unica allieva di Volpi, appunto. Obliata per molto tempo, nonostante varie partecipazioni anche alla Biennale di San Paolo negli anni '50 e '60, il riscatto di Koch (emigrata in Brasile a causa delle persecuzioni naziste, e traduttrice per Scotland Yard per oltre dieci anni, due nodi importanti nella sua curiosa biografia, ndr) è avvenuto in tempi recenti, proprio grazie allo stesso Kuczynski che era stato invitato dall'artista a occuparsi dell'archivio, composto da centinaia di disegni e decine di tele. Declinato l'incarico, alcuni anni dopo, nel 2018, il gallerista ricompra in asta buona parte della collezione personale dell'artista, determinando quello che oggi è una vera e propria riconsiderazione di una figura il cui titolo di questa mostra racconta tutto, o quasi: oggetti comuni come sdraio e ombrelloni, paesaggi marini e nature morte corrisposti da toni assolutamente rarefatti, silenziosamente esplosivi. Il tutto, se possibile, reso ancora più curioso dalla tecnica a tempera su tela, appresa proprio con Volpi, che fanno apparire queste visioni come frammenti di film muto ripassati a colore, di una freschezza e solitudine disarmante, di una verità e spietatezza assoluta, come pare essere stata la vita di Elenore, che aveva scelto di smettere di dipingere ben prima della sua scomparsa, impossibilitata a «comandare» il rigore della sua pittura a causa della propria malattia. «Não são coisas do cotidiano, só parecem» é, realmente, un universo da esplorare palmo a palmo, perdendosi nelle texture, nelle velature, in una semplicità apparente capace di nascondere i misteri delle cose di sempre.

Eleonore Koch, Marinha com farol, 1975, tempera su tela, 81x111 cm.
Altra esposizione molto particolare è il dialogo tra Jimmy DeSana (1949-1990) e Laurie Simmons (1949), a Casa Iramaia, seconda sede della galleria Mendes Wood DM, residenza progettata dal modernista Gregori Warchavchik negli anni '50, in zona Faria Lima. Anche in questo caso il titolo aiuta nel comprendere l'unione dei due artisti: «Amici, partner, complici» (fino al 17 maggio). Associata al movimento della «Pictures Generation» Simmons, e alla scena «New Wave» e alla successiva «No Wave», DeSana, i due condivisero lo stesso atelier di SoHo, dal 1973 al 1978, separati soltanto da una vetrata, tanto che la stessa Simmons dichiarò che Jimi le aveva insegnato ad essere fotografa, mentre a sua volta aveva insegnato al compagno di ventura ad essere artista. Così, tra le pareti di Casa Iramaia, si incontrano una collezione di corpi che sembrano attraversare, repentinamente, la produzione di uno e dell'altra, passando da surreali immagini in bianco e nero (Simmons) agli stranianti technicolor di DeSana, entrambi corroborati da una sensualità alternativamente pericolosa o patinata.
Tornado per musei, alla Pinacoteca è in scena, fino al 27 luglio, «Tecendo a Manhã. Vida moderna e experiência noturna na arte do Brasil», un'altra esposizione assolutamente curiosa che narra l'esperienza della notte, dei suoi rituali e misteri, attraverso un allestimento assolutamente formale e quasi didascalico che a un primo approccio appare quasi disturbante, ma che in un lampo si rivela necessario per far fronte alle numerosissime sollecitazioni a cui la mostra va incontro. Anche in questo caso moderno, contemporaneo, ufficiale e «popolare» si mischiano per creare un intreccio che scava in angoli di pura poesia: c'è lo splendido polittico «Luna», 1984, di Tomie Othake (1913-2015); c'è il postribolo di Emiliano Di Cavalcanti (1897-1976); le sculture in legno di Ulisses Pereira Chaves (1922-2006) e le piccole tavole tra mistico e rituale di Odoteres Ozias (1940-2011), arrivate dal Museo Internazionale d'Arte Naif di Rio de Janeiro, fino ad arrivare all'alba, dove è commovente uno spezzone del film italo-franco-brasiliano «Orfeu Negro», 1959, diretto da Marcel Camus, che si chiude con tre bambini suonando una chitarra e danzando, per omaggiare la nascita del sole dalle acque del mare di Rio e per far idealmente rivivere Orfeu, tragicamente scomparso con la sua Euridice dopo un folle carnevale. Con colonna sonora di Tom Jobim e Luís Bonfá, il film vinse l'Oscar come Miglior Film Straniero nel 1960, rappresentando la Francia per via di Camus, pur essendo girato in portoghese e interamente in Brasile.

MAM São Paulo. Encontros entre o moderno e o contemporâneo, vista della mostra al Centro Cultural Fiesp. Foto: Ding Musa, MAM São Paulo
All'Istituto dedicato a Tomie Othake, architetta di origine giapponese che in Brasile trovò la sua seconda casa, è in scena invece «Em cada canto» (In ogni angolo, ndr), dedicato alla collezione di Wilma Eid, fondatrice della Galeria Estação che da oltre quarant'anni (e venti di galleria) ha raccolto oltre cento artisti riscattando e riattualizzando, ancora, le definizioni di popolare, moderno e contemporaneo, facendo convivere nel mercato gli «ufficiali» Mira Schendel e Tunga, giusto per citarne un paio, con Maestri «non accademici» come José Antonio da Silva, Isabel Mendes da Cunha, Itamar Julião e Veio, in una relazione continua tra tradizione e innovazione, figurazione e astrazione, dove le provenienze e le estetiche si mescolano in uno splendido allestimento che sembra ricordare il più famoso degli assunti di Giorgio Agamben, ovvero che tutta l'arte è contemporanea.
Dulcis in fundo, eccoci in uno degli edifici più iconici riprogettati da Lina Bo Bardi, il SESC Pompeia, appunto. In questa ex fabbrica di frigoriferi il cui progetto di revitalizzazione e rimodellamento fu affidato all'architetta italiana nel 1977, consegnato alla città nel 1982, e che oggi riunisce, tra gli altri servizi, un teatro, aree sportive, una piscina, un ristorante e un incredibile spazio espositivo, è in scena Antoni Muntadas (1942). Il progetto, concepito site specific per gli spazi della Pompeia, si intitola «Lugar Público» ed è, a tutti gli effetti, una dissertazione intorno al tema dalla convivenza, della prossimità, dell'utilizzo dello spazio comune come luogo di incontro e non della paura, questionando l'attitudine politica alla privatizzazione o, addirittura, all'interdizione dello stesso, approccio che spesso si riscontra in una città complessa come San Paolo. Tra luci blu, domande esistenziali che si rincorrono in tutti gli ambienti e totem-video che mostrano le aree più sensibili della metropoli in fatto di folla, dalla stazione Luz al viadotto Goulart, di giorno un semplice «corridoio» automobilistico e di notte e nei fine settimana un parco urbano pedonale, Muntadas arricchisce di magia gli spazi che Lina Bo Bardi aveva voluto lasciare quasi intatti, ma non aggiunge molto al complesso tema dell'abitare una megalopoli con una prossemica di vicinanza.

Tecendo a manhã, Pinacoteca, ph. Levi Fanan
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