Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Gilda Bruno
Leggi i suoi articoli«La parola più sentita per descrivere il lavoro di Carrie è stimolante», si legge in Carrie Mae Weems: The Heart of the Matter, catalogo redatto da Aperture e Allemandi Editore in occasione dell’omonima retrospettiva dedicata alla carriera pluridecennale dell’artista afroamericana, in visione fino al 7 settembre nella sede di Piazza San Carlo di Gallerie d’Italia a Torino. A dirlo fu l’autrice statunitense bell hooks (Hopkinsville, 1952-Berea, 2021), la quale riconobbe nella produzione di Weems (Portland, 1953) la capacità di spingerci «a lasciare andare qualsiasi stereotipo che abbiamo non soltanto riguardo all'identità femminile nera, ma anche in relazione a come percepiamo la storia afroamericana: il dolore, la sofferenza».
A motivare la sperimentazione di quest’ultima è la volontà di rompere gli schemi che hanno contraddistinto la rappresentazione della sua comunità, a partire dallo sguardo violento e disumanizzante impresso su di essa nel corso della storia, tanto dai singoli quanto dagli organi politici e dalle istituzioni culturali dominanti, per raccontare «la profondità di potere e bellezza» che la caratterizza nella vita di tutti i giorni. Per ritrarre sé stessa da protagonista attiva della sua storia, denunciando i capitoli più bui delle sue esperienze, o di quelle di coloro che l’hanno preceduta, senza mai lasciare che le avversità le impediscano di rimpossessarsi del posto che le spetta.
Nelle circa 100 opere raccolte in «The Heart of the Matter», Weems avvolge il pubblico in un percorso che, riesumando vicende personali e collettive, ci impronta alla redenzione. Ne parliamo con Sarah Meister, direttrice esecutiva di Aperture e curatrice dell’esposizione.
Penso di parlare a nomi di tutti quando dico che Torino non potrebbe essere più onorata nell’accogliere un’artista del calibro di Carrie Mae Weems. Come nasce questa mostra?
Sin dal momento in cui ho conosciuto Michele Coppola, Direttore Generale ed Esecutivo di Gallerie d’Italia, ero a conoscenza della sua volontà di trasformarla, assieme ad Antonio Carloni, Vice Direttore della sede torinese, in una destinazione dedicata alla fotografia di rilievo internazionale. Come ben sai, Aperture è una casa editrice non profit che in 73 anni ha lavorato con molte delle figure di spicco di questo ambito, da Diane Arbus a Nan Goldin e Sally Mann. Quando ho incontrato Carloni la prima volta per parlare di una mostra a cui poter collaborare, avevamo entrambi una lista di artisti che avevamo in mente. Che tu ci creda o no, il caso ha voluto che il primo nome sulla lista di entrambi fosse Carrie Mae Weems. Non c’è stato nemmeno bisogno di confrontarci sulla nostra seconda scelta. Da lì, ci siamo chiesti: «Che cosa dirà Carrie?». Aperture aveva lavorato con lei sul suo libro The Hampton Project (2001), ma era passato del tempo, e sapevamo quanto fosse impegnata. Abbiamo però colto la palla al balzo proponendole il progetto e da subito si è dimostrata tremendamente eccitata all’idea di sviluppare un intero lavoro per l’occasione, cosa che ritengo abbia fatto la differenza per lei. Pur avendo avuto moltissime mostre degne di nota in tutta Europa negli ultimi anni, questa le ha dato l’opportunità di creare qualcosa di nuovo, e di farlo supportata da una prospettiva curatoriale diversa.
«The Heart of the Matter» è un titolo che non lascia dubbi riguardo all’intensità e alla natura emotiva delle opere racchiuse in questa vetrina. Ci parli della sua storia.
Sono in possesso di molti dei libri incentrati sul lavoro di Carrie, da Reflections for Now (2023), pubblicato a fronte della sua mostra al Barbican, a The Shape of Things (2023), uscito in concomitanza con la sua personale al Luma Arles, e il catalogo rilasciato in occasione dell’Hasselblad Award, da lei vinto lo stesso anno. Ma è stato un altro volume, October Files (2021), edito da Sarah Lewis, a concedermi di comprendere a pieno le diverse prospettive critiche che negli anni hanno funto da pilastri per la sua produzione. Con tutti quei libri meravigliosi a riguardo, farne tesoro è venuto naturale. Ma sai, è questo il lavoro del curatore: chiedersi che cosa non sia ancora accaduto, che cosa ancora non sia stato detto riguardo a un determinato artista. Si comincia sempre dai lavori che preferiamo. Conoscevo «From Here I Saw What Happened and I Cried» (1995-96) dai tempi in cui il MoMA l’aveva acquisito, un’opera che ancora oggi ritengo sia stata sottoanalizzata. Ed ero consapevole di come «Kitchen Table Series» (1990) fosse stata in grado di cambiare la conversazione sulla produzione di Carrie. Prendendo questi due progetti come fondamenta per la retrospettiva, assieme alla nuova opera, «Preach», riguardante la spiritualità nella chiesa Black, ho cercato di capire che cosa non fosse ancora stato esplorato in relazione alla sua ricerca artistica. Al tempo stesso, mi aveva toccata il modo in cui la fede nella comunità nera aveva servito da leitmotiv nel suo lavoro sin dagli anni Settanta. Qualsiasi direzione avremmo preso per la curatela, sapevo sarebbe stata profondamente personale, e che avrebbe affrontato la sua intera carriera. Il fulcro di «Kitchen Table Series» è la stessa Carrie, ma come una sorta di archetipo fittizio, cosa che trovavo fortemente interessante. Essendo la mostra in Italia, era inevitabile includere «Roaming» (2006). Oltre a questi, adoro la sua «Museum Series» (2006-), dove si ritrae nei suoi stessi panni mentre confronta queste istituzioni di potere, in piedi di fronte alle loro architetture antiche e moderne. Altrove invece, recita una parte, ma pur sempre di persone in cui si rivede. Insomma, più mi domandavo quale dovesse essere il focus della mostra, più capivo che il filo comune in tutti i lavori realizzati da Carrie era la stessa Carrie. Da lì, il titolo.

Carrie Mae Weems, «Galleria Nazionale D’Arte Moderna», 2006-in corso. © Carrie Mae Weems. Courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin

Carrie Mae Weems, «Wilfredo, Laura and Me, I», 2002, dalla serie «Dreaming in Cuba». © Carrie Mae Weems. Courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin
La capacità di Weems di usare il proprio corpo a mo’ di bussola per richiamare l’attenzione verso l’ineguaglianza legittimata e rinforzata dalle istituzioni è uno degli aspetti più dirompenti della sua produzione. Fino a che punto la mostra le ha concesso di scoprire di più a riguardo?
Per tutto il periodo di preparazione che ha preceduto la mostra, Carrie era devotamente concentrata su ciò che importava maggiormente per lei: sviluppare una nuova opera. A me spettava focalizzarmi sul resto. Penso sia felice che sia andata così, e la capisco. C'è un aneddoto che trovo molto interessante: prima di «The Heart of the Matter», non avevo mai letto nulla di quello che l’artista Jeffrey J. Hoone, marito di Carrie da quasi 30 anni, ha scritto del suo lavoro, perdendomi quindi una parte critica del dialogo a riguardo. Così, l’ho invitato a contribuire al catalogo della retrospettiva, per cui ha firmato un bellissimo saggio. Poco tempo fa ho chiesto a Carrie se l’avesse letto, e mi ha risposto di no. Ma la cosa non mi sorprende: attiva da anni, sa che le strutture curatoriali, le parole, tutte queste cose, vanno e vengono. Quel che resta, invece, è il suo lavoro.
C’è una ragione se ha scelto la fotografia e l’audiovisivo per raccontarsi.
Al contempo, se vuole che ci siano delle parole in esso, non si fa problemi ad aggiungercele, come accade in «Scenes and Takes» (2016) e «Kitchen Table Series» (1990) fino a «Family Pictures and Stories» (1978-84). Quando le parole hanno importanza, Carrie ce le mostra. In quanto alle mie parole, sono grata di avere collaborato con Megan Kincaid, neo dottoressa di ricerca in storia dell’arte presso l’Institute of Fine Arts di New York, la quale ha scritto le guide a ciascuna delle opere presenti nella mostra, pubblicate alla fine del libro realizzato da Aperture e Allemandi Editore in occasione dell’evento, e mi ha aiutato a connettere i diversi motivi emersi e riemersi nei progetti di Carrie negli anni. Oltre a suo marito e al fotografo ed educatore americano Dawoud Bey, suo amico di lunga data nonché Aperture Trustee, le altre voci nel libro sono scrittori e accademici che non ha mai conosciuto di persona. Abbiamo sfruttato l’occasione per introdurre una nuova generazione di studiosi interessati alla sua produzione. Quando avrà modo di sfogliare il catalogo, penso la renderà felice.
Presentato qui per la prima volta, «Preach» parla della chiesa Black non soltanto in quanto piattaforma religiosa, ma anche e soprattutto come una forma di resistenza. Quali sono state le sue prime impressioni a riguardo?
Penso che «Preach» parli di perseveranza, della possibilità di trascendenza che risiede nell’aggrapparsi alla speranza di fronte alla violenza, alle avversità, sociali e strutturali. Purtroppo, ciò rende quest’opera non soltanto rilevante in relazione al momento storico corrente, ma essenziale in relazione all’intera storia degli Stati Uniti d’America, e a quella globale. Nessuno avrebbe mai potuto prevedere la piega che il mondo sta prendendo oggigiorno. Ma in un modo o nell’altro, questo progetto ci insegna a sperare, malgrado le persecuzioni, e a perseverare nel farlo, nonostante tutto, interrogandoci su ciò che la chiesa Black americana ha da offrire in quanto sito di attivismo, memoria, apprendimento, e speranza. Per questo non potrei essere maggiormente soddisfatta della posizione centrale che occupa nella mostra: perché l’arte può mostrarci futuri che, senza di essa, sembrerebbero inimmaginabili. E quella di Carrie lo fa in maniera esemplare.

Una veduta della mostra «Carrie Mae Weems: The Heart of the Matter» alle Gallerie d’Italia-Torino