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Novecento derelitto

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Flaminio Gualdoni

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Le sculture pubbliche in Italia sono in stato di abbandono 

Sarà perché questa stagione milanese porta inaugurazioni a raffica in giro per la città, ma mi si è conficcato nel cervello un tarlo fastidiosissimo: sì, vabbè fanfare e nastri, ma poi a mantenere questa roba chi ci pensa? Il caso tipico è quello delle sculture. Passa un anno, ne passano due, e molte cose del contemporaneo collocate qua e là nelle nostre città diventano derelitte, quasi fossero ospiti malsopportate e vagamente abusive: e si sa, non c’è cosa come il degrado dell’arredo urbano per creare panorami da «grande bruttezza». Vabbè, si potrebbe dire, da noi cadono a pezzi autostrade e scuole, figuriamoci se qualcuno si prende la briga di accudire le sculture negli spazi urbani. Eppure, con pochi soldi e la giusta dose di buona volontà, la sensazione di desolazione che ci assale troppe volte in giro per strade e piazze magari sarebbe meno opprimente.

Faccio un esempio. A Roma, in piazzale Nervi davanti al Palazzo dello Sport, nel 2004 si inaugurò in pompa magna la grande scultura «Novecento» di Arnaldo Pomodoro, una grande spirale conica alta ventuno metri di grande forza visiva. Uno specchio d’acqua la circondava, in una sapiente moltiplicazione visiva tra terra e cielo, e la previsione era di fare di questo ampio spazio un luogo davvero da vivere. «Certamente il luogo, piazzale Nervi all’Eur, è particolarmente significativo: segna, per chi giunge dal mare, l’accesso a Roma. Inoltre lo spazio attorno alla scultura dà una totale visibilità all’opera e invita alla sosta. Credo che, se saranno collocati i necessari arredi (panchine ecc. ecc.), come è nei progetti, questa piazza potrà divenire un luogo di aggregazione e di incontro». Così dichiarava Pomodoro in un’intervista d’allora. Ebbene, la fontana ha funzionato un po’ sì e molto no, e ora è un relitto edile abitato da immondizia e dagli immancabili graffiti. Di panchine e amenità varie neppure l’ombra. La scultura si erge in una sorta di nulla, come se qualcuno l’avesse parcheggiata lì in previsione di spostarla da un’altra parte.

Uno pensa alla grande «Flamingo» di Calder collocata nella Federal Plaza di Chicago, per dire, o alla «Fontaine Strawinsky» di Tinguely e Niki de Saint Phalle davanti all’Ircam di Parigi, che ci fanno anche le cartoline, e gli viene il magone. Se poi considera che sculture monumentali di Pomodoro in giro per il mondo ce ne sono non poche, trattate con tutti i riguardi, l’incazzatura monta potente.

Ma il punto è questo. Da noi molti grandi artisti hanno realizzato opere importanti negli spazi urbani, e regolarmente dopo il taglio del nastro esse sono state abbandonate al loro destino, sia da chi dovrebbe garantire loro quel minimo di sopravvivenza decente, sia da coloro che dovrebbero dare l’esempio facendosene vanto, assumendole come simboli di orgoglio civico. Prova evidente che, tirando le somme, in realtà ciò che manca è qualcuno cui importi davvero, qualcuno che non le consideri solo un fastidio burocratico-amministrativo sul quale lesinare anche pochi spiccioli. Poi, a parole, ci piace inneggiare alla modernità, al «segno contemporaneo» che dialoga con l’anima antica delle nostre città, e tutto l’ambaradan di fesserie da convegno sul futuro delle città. Il futuro delle città è una roba che si chiama manutenzione della bellezza, più silenziosa ma forse addirittura assai più difficile che crearne della nuova.

Flaminio Gualdoni, 03 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

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