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Foto: Gianni Berengo Gardin. Crediti: Andrea Guermani

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Foto: Gianni Berengo Gardin. Crediti: Andrea Guermani

Non conta «come» si fotografa ma «quello» che si fotografa. Giovanna Calvenzi ricorda Gianni Berengo Gardin

Che sia stato un Maestro nessuno ne dubita. Solo lui non ci credeva o pretendeva di non crederci. Se doveva definirsi diceva di essere un fotografo ma non un artista bensì un artigiano

Giovanna Calvenzi

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Che sia stato un Maestro nessuno ne dubita. Solo lui non ci credeva o pretendeva di non crederci. Se doveva definirsi diceva di essere un fotografo ma non un artista bensì un artigiano. Eppure Gianni Berengo Gardin ha insegnato a molte generazioni a “vedere”, a capire che cosa guardare, a essere partecipi grazie alla fotografia. Amava dichiarare che “Non conta “come” si fotografa ma “quello” che si fotografa”. Affermava, come fosse un’indiscutibile verità, che solo la realtà conta, che solo le persone e gli eventi contano e il fotografo ha il compito di essere soltanto un partecipe testimone. La sua era una dichiarazione di umiltà ma anche una lezione applicata di quel grande fotogiornalismo umanista che lo ha affascinato per tutta la sua vita professionale, dal quale non si è mai allontanato.

Berengo nasce a Santa Margherita Ligure nel 1930 ma è a Venezia che inizia a fotografare a metà degli anni Cinquanta, con una passione e una curiosità che non lo avrebbero mai abbandonato. Nel 1963 diventa professionista, a Milano, città che non avrebbe più lasciato. Ancora lui dichiarerà: “Le città della mia vita però sono tre: Venezia, dove sono cresciuto, Parigi, dove ho capito davvero che cos’è la fotografia, e Milano, dove sono arrivato per necessità e rimasto per scelta. Quando ho cominciato a viaggiare in Italia e in Europa per il Touring Club, in modo impercettibile, un po’ per volta, Milano è diventata il posto al quale tornare, la mia “tana”, la città del lavoro ma anche degli affetti”. Nel 1970 l’amico fotografo Cesare Colombo gli aveva diagnosticato “l’occhio come mestiere”, suggerendogli però di continuare a usarne uno per inquadrare e quindi fotografare, riservando l’altro per strizzarlo ai clienti. Berengo non ha seguito il consiglio dell’amico: tutte le sue immagini, personali o “per i clienti”, hanno la stessa poesia, la stessa immutata capacità di fermare un momento della nostra storia. Attraverso il tempo e la mutevolezza delle mode, Berengo ha conservato intatta la capacità di osservare il mondo con uno sguardo limpido e “classico” e di misurarsi sempre e comunque con tutte le sfide che la contemporaneità metteva sulla sua strada.

Ogni volta che gli veniva consentito le sue storie diventavano libri: oggi quasi trecento, ognuno dei quali dedicato a un tema importante. Poteva essere il primo, “Venise des saisons” (1965), “Morire di classe”, l’inchiesta realizzata nei manicomi con Carla Cerati per incarico di Franco Basaglia (1969), “Un paese vent’anni dopo” con Cesare Zavattini (1976) o ancora le inchieste realizzate con Luciano D’Alessandro “Dentro le case (1977) e “Dentro il lavoro” (1978) oppure “L’India dei Villaggi” (1980), “La disperata allegria. Vivere da Zingari a Firenze” (1994), “L’Aquila prima e dopo (2012), “Venezia e le grandi navi” (2015) fino al grande libro che gli ha dedicato la Treccani nel 2020 e “In parole povere. Un’autobiografia con immagini” (2020), ma ognuno di loro è come un regalo per consentirci di “vedere” quello che avevamo visto ma capito e conosciuto solo grazie alle sue fotografie. In una delle sue ultime interviste, pochi mesi fa, raccontava sorridendo di un nuovo progetto dedicato alle feste religiose in Sicilia, “sessant’anni dopo il libro del mio amico Ferdinando Scianna”.

Nei ricordi che dopo la sua scomparsa si sono intrecciati sui giornali e sui social più volte è stato definito “un fotografo del secolo scorso” e tuttavia mai definizione è stata tanto riduttiva. Gianni Berengo Gardin usava certamente tecniche tradizionali, sempre fedele al sistema analogico e rifiutando sempre tutte le possibilità di uso del digitale o di Photoshop (che, dichiarava, avrebbe dovuto essere proibito per legge), preferiva il bianco e nero al colore e timbrava il retro delle sue fotografie con la obsoleta dichiarazione “Vera fotografia”. Ma come in ogni creazione artistica (o artigianale, per non irritarlo) è il risultato che conta, non gli strumenti o i metodi che si sono utilizzati per realizzarlo. In settant’anni di indefesso lavoro il mondo di immagini (circa due milioni) che Berengo ha creato rimane a raccontarci la Storia e tante storie, a testimoniare la sua inusuale capacità di unire impegno civile e poesia, etica e sorriso. Già in un’intervista del 1984 aveva dichiarato: “Guardandomi indietro mi sembra di essere sempre stato in vacanza, di essere riuscito a fare solo quello che volevo” e pochi mesi fa commentava nel negozio dell’amico Ryuichi Watanabe “Mi secca morire perché la vita è bella”.

 

 

 

 

Foto: Gianni Berengo Gardin. Crediti: Andrea Guermani

Giovanna Calvenzi, 11 agosto 2025 | © Riproduzione riservata

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