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Sergio Buttiglieri
Leggi i suoi articoliÈ davvero sconfortante che davanti a una regia così curata e innovativa come quella di Mario Martone con il suo tenebroso «Macbeth» di Giuseppe Verdi alla prima del Maggio Musicale ci siano stati dei ripetuti «buuu» da parte dei melomani, i quali come al solito non accettano alcuna regia che lasci il segno pur rispettando il libretto. Alla fine dell’opera gli striscioni con «Mai più vittime innocenti», «Mai più genocidi», «Mai più massacri» non sono stati graditi da una parte del pubblico, che non ha apprezzato il fatto che il protagonista fosse in tuta mimetica. O che nell’ultimo atto la scena ideata da Martone mostrasse una città devastata dalla guerra come fondale su cui si svolgono alcune celebri arie. O, ancora, che la perfida Lady Macbeth entrasse in scena parlando al telefonino. Mentre gli artisti ribadiscono che «se c’è stato un dibattito a fine spettacolo, se ci sono stati applausi ma anche contestazioni ben vengano. Il teatro è cosa viva, la Cultura ci interpella».
Per fortuna alla replica a cui ho assistito io (le recite si sono tenute dal 12 al 19 ottobre, Ndr) i «buu» non si sono ripetuti e il folto pubblico fiorentino ha invece lungamente applaudito la regia, che si è magnificamente avvalsa delle scene dell’artista Mimmo Paladino. A cominciare dal dipinto iniziale, che tanto ci ricordava il Trionfo della Morte (1440-45 ca) conservato nella Galleria di Palazzo Abatellis a Palermo, affresco che si pensa abbia ispirato la celeberrima «Guernica» di Picasso, manifesto dell’artista spagnolo contro gli orrori della guerra. Come nel «Trionfo» siciliano, anche nel grande sipario di Paladino al centro della composizione appare uno spettrale cavallo: è quello della morte, scarnificato come fosse appena uscito da una tomba scoperchiata. Uno scheletro umano cavalca la bestia e la guida per il mondo volando sopra una selva di volti terrorizzati e di braccia imploranti, di teschi e di corpi smembrati, di figure grottesche e inquietanti. Sono tutti, indistintamente, vittime della morte: re, papi, imperatori, generali, governanti e gran signori, uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveracci. Sono ombre accerchiate da lingue di fuoco, destinate a essere travolte dalla ineluttabile infernale cavalcata. In alto, verso destra, si intravede una lampada accesa. È come quella di «Guernica», ci ricorda Sergio Risaliti (direttore de Museo del Novecento di Firenze nel suo saggio allegato al libretto), una piccola immagine di speranza in un mondo giunto alla fine della storia.
Tutti questi artisti, Shakespeare, Verdi, Picasso, Paladino e l’anonimo pittore che ha visto galoppare il cavallo della morte per l’Europa, hanno un assoluto pregio: esprimono temi universali portandosi sulle spalle la cronaca, anche se poi da questa trascendono con il loro visionario linguaggio. È un’opera, questa di Paladino, che ci riconnette alla storia dei popoli e al destino delle Nazioni, che riporta alla luce il dispendio di vite, il lato disumano del progresso e che, nel fare questo, ci risveglia in modo traumatico dall’apatia e dall’assuefazione al dolore degli altri.
Quella che Paladino ha voluto creare è una scena apocalittica, rielaborata come un sipario di ferro per accompagnare lo spettatore nel clima oscuro di questo spettacolo. Non poteva che essere il maestro campano a sintonizzarsi con il «Macbeth» di Verdi, con le sue potenti, estreme sonorità che a tratti montano come un mare in tempesta e paiono sprofondarci nei gorghi di una furia catastrofica, come ben ci ricorda Risaliti. In questo sipario di 18 metri per 8, realizzato su legno stendendolo per terra nel suo studio a Paduli, l’artista ha usato carboncino, grandi pennelli e, date le dimensioni, ci ha camminato sopra quasi in trance muscolare, come uno sciamano alle prese con spettri e fantasmi, con le forze oscure del dentro e del fuori, con le Erinni e le divinità della guerra, con i mostri generati dalle ideologie e dalla tecnologia.
D’altronde la collaborazione di Paladino con Martone è di lunga data. In accordo con il regista, l’artista ha voluto che ci fossero dei richiami visivi alla dimensione mitologica e arcaica. Come già fece con l’invenzione di oggetti medievali barbarici nel suo precedente «Edipo Re» ed «Edipo a Colono» di Sofocle, quasi un arsenale delle apparizioni, simile a quello che realizzò, sempre per Martone, nelle Operette morali di Leopardi.
Il regista aveva debuttato con il «Macbeth» nel 2015 all’Opéra di Parigi, ma ciò che ha riportato in scena pochi giorni fa a Firenze è una perfetta rielaborazione dell’idea di quello spettacolo, anche grazie alla magica scenografia di Paladino e, soprattutto, attraverso l’irruzione della realtà contemporanea, dei conflitti di oggi. Martone ci ricorda che «riuscire a vedere la sofferenza, non chiudere gli occhi di fronte alle vittime, è un gesto di umanità. Non vedere il dolore, invece, vuol dire restare nell’oscurità. Il coro del IV atto del “Macbeth” che intona “Patria oppressa”, rielaborata dallo stesso Verdi nella versione parigina del 1865 [che Martone ha scelto], è l’unica scena in cui compare il cielo con la sua luce. Si rompe l’oscurità per illuminare il dolore delle persone».
Il coro del Maggio Musicale, perfettamente diretto da Lorenzo Fratini, assieme al grande maestro concertatore e direttore Alexander Soddy ha emozionato gli spettatori, assieme naturalmente all’amatissimo baritono Luca Salsi nel ruolo del protagonista. Oltre, ovviamente, alla notevolissima soprano ispano-americana Vanessa Goikoetxea che impersonava con grande maestria la cattivissima Lady Macbeth. Applausi ripetuti anche ad Antonio Di Matteo, perfetto Banco, Antonio Poli, nel ruolo di Macduff, e a Lorenzo Martelli che impersonava Malcom.
Di grande fascino le scene immerse nel buio, in un clima arcaico, ideate con Pasquale Mari, con le Streghe danzanti (che per Martone sono come le contadine del Sud di una volta, vestite di nero, gonne lunghe e una gestualità rituale) realizzate con la collaborazione di Raffaella Giordano (e che tanto mi ricordavano le meravigliose streghe del «Macbeth» di Emma Dante, visto quest’estate allo Sferisterio di Macerata): nel compiere i loro riti, le tre «Weird Sisters» predicono a Macbeth che diverrà signore di Cawdor e quindi re di Scozia. Ma sia a lui, sia soprattutto alla sua Lady, ciò non basta, affamati entrambi di prendere il potere assoluto, compiranno efferati delitti che li porteranno alla completa pazzia: «Il sonno uccidesti», ci ricorda efficacemente il libretto ideato da Francesco Maria Piave e Andrea Maffei.
Il «Macbeth» debuttò proprio a Firenze al Teatro della Pergola il 14 marzo 1847. Poi l’autore la rielaborò per la seconda versione che portò al Théâtre Lyrique di Parigi il 21 aprile 1865. Per Martone è un’opera che va guardata come uno specchio deformante del nostro tempo. Perché il Male è come un cancro che corrompe, cancella i valori della civiltà. Questo, secondo il regista, è quanto ci consegna il dramma di Shakespeare e di Verdi.

Una scena del «Macbeth» allestito per il Maggio Musicale fiorentino. Foto Michele Monasta

Una scena del «Macbeth» allestito per il Maggio Musicale fiorentino. Foto Michele Monasta

Una scena del «Macbeth» allestito per il Maggio Musicale fiorentino. Foto Michele Monasta

Il sipario realizzato da Mimmo Paladino per il «Macbeth». Foto Michele Monasta
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