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Leonardo Merlini
Leggi i suoi articoliJonathan Franzen nel 1996 scelse di intitolare Forse sognare un suo brillante saggio sullo scrivere romanzi. Quel titolo, con un dubitativo che può sembrare anomalo per la personalità molto strutturata dell’autore de Le correzioni, con il passare degli anni ha assunto sempre più pregnanza, è diventato sempre più “vero” e, forse, ci continua a indicare una via possibile per il genere letterario che - da Cervantes al Settecento borghese, da Moby Dick fino a David Foster Wallace - ha segnato il tempo ambiguo e industrializzato della modernità. Una via che è duplicemente strana (e la stranezza per il critico canonico Harold Bloom era la qualità forte della grande poesia, non dimentichiamolo mai) e incerta, costruita sul dubbio e sul sogno, quindi sugli errori e su ciò che, in fondo, continuiamo a credere che non esista. Ma qui, probabilmente sbagliamo. Lo stesso Franzen, qualche anno dopo, si interrogava sul modo in cui il romanzo poteva confrontarsi con la forma di narrazione popolare più pervasiva del nostro tempo: le serie televisive. Un confronto impari, certamente, con il povero Don Chisciotte di turno a fronteggiare non i mulini a vento manceghi, ma Netflix e i suoi altrettanto spaventosi fratelli. In un certo senso Franzen ha poi messo in pratica la propria sfida con un romanzo importante e popolare come Purity, e gli esiti sono stati interessanti. La sensazione però è stata che, per ridefinire il romanzo contemporaneo alla luce della società frammentata e dispersa in cui viviamo, servissero altri passi in avanti. Servisse un “forse sognare” ancora più forte.
Oggi, e la notazione cronologica è volutamente provvisoria, abbiamo trovato qualcosa che sembra rispondere a tale domanda, a tale bisogno, perché questo è: un bisogno di mettere dell’altro terreno tra noi e la morte del romanzo (peraltro celebrata, con tanto di funerali già quasi un secolo fa, e forse a pieno titolo, ma ognuno è responsabile del proprio tempo delle proprie scelte), in modo da avere ancora strada e ancora vita da percorrere. Goodbye Hotel di Michael Bible, lo hanno scritto in molti perché appare lampante, è un romanzo disperatamente contemporaneo, tenacemente misterioso e oscuro, così libero da fare innervosire a volte (e in questo rimanda a certe pagine di Ben Lerner, altro interprete potenzialmente decisivo del genere romanzesco nel XXI secolo), ma capace di punte di meraviglia letteraria e di cambio di prospettive da togliere letteralmente il fiato. Non ci sono né verità, né linearità in Bible, tutto è stato in um modo e in molti altri modi, tutto è possibile e impossibile, la vita è la morte e la morte è la vita, il passato è nel futuro e viceversa, le tartarughe pensano, parlano e ogni cosa ha molteplici specchi in cui riflettersi, puntualmente diversa. Ma non si tratta di un vezzo o di quello che una volta chiamavamo, con un’ombra di ingenuità pulita, “massimalismo”: si tratta di una necessità, di un modo di essere della scrittura di Bible, come se il romanzo potesse esistere solo in forma molteplice. Per dirlo guardando di nuovo a Franzen, Goodbye Hotel, che in Italia è pubblicato da Adelphi, si comporta come una serie tv, la supera in oscurità e sembra giocare con le stesse tecniche di narrazione non lineare, esaltandole in forma letteraria seria, come hanno fatto altri autori come Jennifer Egan o Valeria Luiselli, seppur in modi molto diversi tra loro.
È interessante lasciare che tornino in mente le previsioni di autori del postmoderno, come il leggendario Robert Coover per esempio, sugli ipertesti e altre ipotesi sul futuro della letteratura, è interessante perché in qualche modo un libro come Goodbye Hotel sembra averle prese, fatte proprie e digerite tutte queste visioni, per poi alimentare, ma in modo indiretto e sfumato, la forza di scrittura che lo sostiene. E questa, pur nella relativa brevità del testo, crea una sorta di “opera mondo”, per citare il professor Franco Moretti, che vive del proprio mistero difficile da sondare, ma anche delle proprie imperfezioni e delle proprie falle. E nel romanzo di Bible le falle ci sono, anzi viene da pensare che siano proprio uno dei punti sui quali lo scrittore del North Carolina ha lavorato, per farne il perno della costruzione letteraria. E qui sta un altro dei suoi pregi. Alla Biennale Arte del 2015 erano esposte le grandi e drammatiche lavagne di Adrian Piper, con scritto in gesso bianco “Everything will be taken away”. In qualche modo, con meno dolore, ma immutata malinconia, anche Goodbye Hotel sembra dire la stessa cosa, sembra ricordarci che il tempo è la nostra grande tragedia come esseri umani, ma che esistono anche modi per strapparlo, per guardare oltre il velo. Non capiremo cosa c’è, ma forse sentiremo sul nostro corpo che cosa vuol dire stare dentro il romanzo contemporaneo. Che è vivo, ci parla e resta, grazie al cielo, ancora inaccessibile nel suo fondo.

Simon Kerola a.k.a Johnny Keethon

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