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Una veduta della mostra su Rubens allestita nelle sale della Galleria Borghese a Roma. © Foto Anna Orlando

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Una veduta della mostra su Rubens allestita nelle sale della Galleria Borghese a Roma. © Foto Anna Orlando

Mescolare mostre e collezioni: il caso di Rubens

Un confronto fra gli allestimenti a Palazzo Te tra gli affreschi di Giulio Romano e in mezzo ai capolavori della Galleria Borghese

Anna Orlando

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Le due mostre recenti su Rubens, la prima a Mantova chiusa dopo la proroga il 28 gennaio, la seconda a Roma, ancora in corso fino al 18 febbraio, si configurano come veri e propri duelli tra titani. Rubens, dalla gigantesca statura, pare imbrigliato in un contesto che impone un confronto tra le sue opere e quelle delle sale che le ospitano: gli affreschi di Giulio Romano a Palazzo Te e tutto il «ben di Dio» della Galleria Borghese, dove non si sa da che parte guardare per la densità dei capolavori che contiene e dove trionfa Bernini con alcune tra le massime espressioni dell’arte di sempre.

La scelta di un confronto voluto dalle curatrici, rispettivamente Raffaella Morselli con la collaborazione di Cecilia Paolini e Francesca Cappelletti con Lucia Simonato, è quanto mai sensato dal punto di visto filologico e critico: nel soggiorno italiano del 1600-08, quando Rubens trascorre la maggior parte del tempo tra Mantova e Roma, gli affreschi dell’allievo di Raffaello e i marmi antichi della Città Eterna si presentano ai suoi occhi come fonti inesauribili d’ispirazione, delle quali serba memoria per tutta la sua vita: una persistente memoria visiva di cui era capace Rubens come pochi altri.

In senso contrario, il Barocco in scultura di Bernini molto deve al precoce Barocco pittorico maturato dal fiammingo proprio in Italia. «Ricostruire le trame visive che hanno portato la critica ottocentesca ma anche gli storici dell’arte del ’900 ad avvicinare Bernini e Rubens è stata la base di questo percorso», mi spiega Cappelletti. Lei li avvicina anche fisicamente. «Hai visto il dettaglio dell’affresco con Nesso e Deianira che torna quasi identico nel Ratto di Europa di Rubens [superlativo bozzetto in prestito dal Prado, Ndr]?», mi esorta Morselli. Sulla carta non c’è dubbio. Il dialogo è quanto mai sensato e ottimamente scandagliato dalle analisi critiche nei due rispettivi cataloghi, edito da Marsilio nel primo caso e da Electa nel secondo; quest’ultimo tra le più belle (e utili) pubblicazioni scientifiche sull’argomento degli ultimi anni.

Ma le distrazioni nel seguire il filo del discorso in mostra sono forse troppe. E su questo bisogna riflettere. Ha senso inserire questa quantità di opere, specie se di grandi dimensioni e di artisti così importanti, in contesti così impegnativi? Chi vince la sfida tra i giganti di bellezza? Come può il visitatore cogliere i rimandi con «il contenitore», che sono il senso su cui si fondano queste mostre, rispetto ad altre antologie? È una questione di opportunità, che si pone anche in altri casi. Per esempio per gli Uffizi, con i suoi 5 milioni di visitatori e 60 milioni di incassi nel 2023, che con la mostra «Between Sky and Heart» (curata da Eike Schmidt e Demetrio Paparoni appena conclusa) ha richiamato un pubblico diverso dallo sciamare di gente spesso concentrata più sullo smartphone che sui capolavori.

Le gigaopere di Joana Vasconcelos hanno dimensioni ingombranti e monopolizzano lo spazio. Urlano un messaggio che si fa sentire anche dando fastidio, come tanta scomoda arte contemporanea che però, proprio così, conferma la sua mission importante: fare riflettere. Anche a Firenze, come alla Borghese e a Mantova, alcuni incontri-scontri tra opere e contenitore sono visivamente riusciti: i tacchi a spillo di Marilyn Monroe nella Sala Bianca di Pitti o la bella stanza dei raffronti con lo «Spinario Borghese», per esempio. Altri meno: la scultura sospesa nella Tribuna degli Uffizi (anche troppo pesante?), o il «Cristo risorto» di Rubens che vedevi splendidamente inquadrato nell’infilata di varchi dal salone della Borghese (al netto del pubblico davanti), ma poi non riuscivi a guardare adeguatamente da vicino, perché la stanza è piccola per una tela di quasi due metri.

In entrambe le mostre rubensiane i pannelli che fungono da pareti autoportanti, necessariamente grandi per l’accrochage in sicurezza delle opere, creano cesure nella percezione dello spazio, e nella sua fruizione totale, totalizzante e inebriante, che entrambe le sedi offrono. I punti di vista voluti da Giulio Romano nel rapporto figure/spazio in queste occasioni si perdono, come si smorza la seduzione dell’elegante e sapiente allestimento della collezione Borghese nelle stanze per cui quelle opere sono nate. I compromessi a cui le sedi portano sono tanti. Troppi?

Una veduta della mostra su Rubens allestita nelle sale della Galleria Borghese a Roma. © Foto Anna Orlando

Anna Orlando, 16 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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