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Mauro Felicori
Leggi i suoi articoliLa Campania è la regione che ha beneficiato più di altre della riforma Franceschini: grazie a essa ha dato di sé una nuova immagine culturale. Ma è necessario che i poli museali abbiano una propria identità e i direttori più autonomia nel gestire il personale.
Se tutti i musei resi semi-autonomi dalla riforma Franceschini (manca ancora la gestione del personale che resta al Ministero) hanno dato buoni risultati in termini di visitatori, visibilità, nuovi allestimenti, ritrovamenti e proiezione internazionale, forse è proprio la Campania la regione che più ha beneficiato del gesto innovativo dell’ex ministro.
Turismo felice
Sarà stato per la notevole concentrazione di istituti (Reggia di Caserta, Capodimonte e Archeologico di Napoli e Paestum, che si sono aggiunti a Pompei per essere poi seguiti da Ercolano e Campi Flegrei), sarà stata la felice coincidenza con una stagione felice per il turismo a Napoli e in tutta la regione, e sarà anche stata (vogliamo dirlo?) una certa fortuna nella scelta di direttori che si sono dedicati anima e corpo alla loro missione, fatto sta che i musei e i siti campani sono diventati l’ordito di una nuova immagine culturale della Campania.
Musei come cattedrali
Si è affermata, in Campania più che altrove in Italia, l’idea di un museo che non solo agisce come un’impresa, compete con gli altri, adotta strategie di comunicazione e marketing, guarda anche ai numeri e ai bilanci; l’immagine di direttori che stanno nella scena pubblica con il decoro che devono avere i funzionari pubblici ma, allo stesso tempo, con la baldanza di chi conosce le regole dei media e non esita a mettersi in gioco per il bene del proprio istituto. Ma è successo qualcosa di più: i musei e i beni culturali si comportano e sono sentiti sempre più come agenzie di sviluppo territoriale, motori della crescita, centro della comunità, come le antiche cattedrali che generavano società intorno alla spiritualità.
Resisterà la riforma?
Esageriamo, naturalmente, per rendere chiara una possibile linea di tendenza e cominciare a rispondere alla domanda che tanti si pongono ma pochi esprimono ad alta voce: che ne sarà della riforma Franceschini? Resterà un bell’episodio di coraggio e visione o sarà solo l’inizio di un processo di rinascita della politica per i beni culturali in Italia? Io confido, naturalmente, nel secondo esito. Per verificare come andrà, abbiamo diversi indicatori, io ne indico due: la questione del personale e quella dei poli museali regionali, ambedue visibili in modo più nitido proprio in Campania.
I musei pescano il proprio pesce Abbiamo visto come la gestione autonoma del bilancio abbia portato ai musei risorse aggiuntive che hanno permesso di diminuire la pressione delle richieste di fondi verso il ministero: secondo la vecchia metafora, i musei sanno e possono pescare e dunque non sono più obbligati a chiedere che si mandi loro del pesce. Si potrebbero avere buoni risultati se anche il personale fosse gestito aziendalmente; se i direttori potessero assumere, ad esempio, pur nei limiti dei loro bilanci e dunque a termine; se potessero gestire la mobilità con il ministero e altri istituti; se potessero definire percorsi di carriera; se potessero adottare efficaci provvedimenti disciplinari. Lo dicono i dati: le fondazioni, che operano con personale proprio, vanno meglio degli stessi musei autonomi che pure in questi tre anni hanno dato così buona prova di sé. I poli museali regionali così come sono oggi, non hanno un’identità, perché non sono altro che l’accorpamento di tutti i musei che non sono stati resi autonomi. Anche con notevoli asimmetrie: il polo campano troppo grande con quasi trenta realtà, poli piccoli come quello umbro o quello ligure sì da essere affidati ai direttori dei musei autonomi maggiori.
Accorpati per tema o per area.
Se davvero crediamo nella riforma, occorre percorrere due vie: in primis, rendere autonomi tutti i musei che hanno una taglia o un ruolo adeguato, per la Campania penso al Palazzo Reale di Napoli, che messo in condizione di competere potrebbe avere ben altre prestazioni, alla Certosa di San Martino, alla stessa Certosa di Padula; ma immagino ci siano diversi altri casi in Italia, mi viene in mente ad esempio la Pinacoteca di Bologna che non è da meno della Estense di Modena e della Pilotta di Parma rese autonome nella seconda onda Franceschini. Così facendo resterebbero orfani decine di piccoli ma significativi musei, che io accorperei o per tema (in Campania i musei archeologici dell’Appia antica aggregati al MANN e/o ai siti maggiori; ma anche i quasi sessanta monumenti borbonici incardinati sulla Reggia di Caserta) o per area, costituendo sistemi museali di area (sempre per stare alla Reggia di Caserta, potrebbe «adottare» sia i palazzi borbonici sia i siti archeologici dell’Appia antica). Ne uscirebbero dei sistemi in cui diversi musei minori (parliamo sempre di taglia, ovviamente) si aggregano intorno ai maggiori, così avremo musei autonomi che sono anche poli museali, anziché musei autonomi da una parte e poli dall’altra.
Nato a Bologna nel 1952, laureato in filosofia all’Alma Mater Studiorum di Bologna, specializzato in Economia della cultura e politiche culturali, Mauro Felicori è stato direttore generale della Reggia di Caserta dal 2015 a novembre 2018. Direttore del Dipartimento economia e promozione della città di Bologna nel 2011-15, è docente nelle Università di Udine e Bologna e consigliere di amministrazione della Fondazione Marconi di Milano e della Fondazione Lucio Saffaro di Bologna

Mauro Felicori