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Mattia Balsamini, Laboratori di test carrozzeria di General Motors, Detroit, 2025

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Mattia Balsamini, Laboratori di test carrozzeria di General Motors, Detroit, 2025

Mattia Balsamini tra fotografia e industria

Dalla fabbrica di Hein Gorny all’archivio Candy, la fotografia osserva il lavoro come forma di pensiero, tra meccanica e umanità. Il confine tra ricerca e committenza visto dall’artista

Andrea Tinterri

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Esiste una predisposizione intrinseca che avvicina la fotografia al mondo del lavoro, dell’industria, della fabbrica, dell’impresa. La capacità di problematizzare nell’illusione della sintesi, una dicotomia necessaria per interrogare una materia vulnerabile e altamente infiammabile. Ma le reazioni del linguaggio possono essere le più diverse e distanti. Perché industria significa pensiero, processo produttivo, fabbrica, ma anche lavoratori, corpi e macchine, rivendicazioni e piazze. E la fotografia ha raccontato e racconta queste sovrapposizioni, queste diramazioni impossibile da sintetizzare.
Hein Gorny che tra gli anni Venti e Trenta in Germania pone l’attenzione sull’oggetto industriale, sull’estetica della serialità, Ghirri che negli anni Ottanta cede alla fascinazione della manifattura Ferrari a Maranello, Uliano Lucas che tra gli anni Sessanta e Settanta entra nelle fabbriche, conosce gli operai e ne racconta le lotte, Andreas Gursky che tra gli anni Novanta e Duemila da forma all’anatomia del capitalismo (esemplare l’opera Amazon, 2016). 
Storie distanti, anche ideologicamente, ma capaci di abbozzare una geografia fotografica che si estende per più di un secolo. È in questa tradizione labirintica e contraddittoria che si inserisce consapevolmente la ricerca di Mattia Balsamini. 
Balsamini Inizia la sua formazione al Brooks Institute (California) lavorando nel 2010 come assistente e archivista nello studio di David LaChapelle. Rientrato in Italia, dal 2011 sviluppa una ricerca dedicato al rapporto tra tecnologia, lavoro e identità. Ha collaborato con istituzioni come MIT, NASA, Charité Berlin e l’Istituto di Medicina Forense dell’Università di Zurigo. In ambito editoriale e commerciale ha realizzato progetti per clienti internazionali tra cui Apple, Ferrari, General Motors, Nike, Prada, Vogue, The New York Times, e TIME Magazine. 
Visibile fino al 9 novembre alla Fabbrica del Vapore di Milano, la mostra «An Archive of Possible Machines. 80 anni di Candy: tecnologie visionarie dall’archivio»; un progetto in cui Balsamini rilegge e riattiva la storia del design italiano, attraverso l’archivio Candy.
Vi proponiamo qui un’intervista a Mattia Balsamini per esplorare il lavoro dell’artista e interrogarci sul confine tra ricerca e committenza, tra luce e ombra, sulla persistenza della carta e sul tempo dell’immagine.
La sua produzione alterna ricerca personale (Protege Noctem, In Search of Appropriate Images, Il suo buio speciale, ecc.) e lavora su commissione per aziende, riviste, istituti di ricerca. Ma la distinzione non è netta e spesso i piani risultano permeabili. 
La mia formazione professionale nella fotografia nasce negli Stati Uniti dove la disciplina non subisce questa forzata richiesta di separare i due campi di ricerca. si tratta di un linguaggio che si avvale di un lessico e una forma espressiva, capace di adattarsi a diversi contesti. Una fascinazione per guardare come oggetti, volti, ambienti, processi sono fatti, e la volontà di conservarli e raccontarli, a volte per sé stessi, a volte per gli altri (committenti) a volte, molto spesso, per entrambi. Spesso, e per fortuna, i miei interessi si sovrappongono, dando vita a una storia molto più vasta, che va oltre al singolo progetto, al singolo lavoro assegnato. Considerato il lavoro come matrice dell’identità umana, un gesto che affonda le radici nella dignità e nell’ingegno. E mi auguro che questa lente possa un giorno rappresentare un tassello nel racconto di questo periodo storico, così come lo è stato per me nell’osservare autori del passato.
In alcuni suoi progetti come Protege Noctem e Blind Spot, per fare solo due esempi, il buio o il lato nascosto del corpo, sembra essere un filtro  o un alfabeto grazie al quale tradurre il paesaggio e raccontare storie. Perché questo interesse?
Mi interessa che la fotografia di cui mio occupo, seppur possa inizialmente essere percepita come distaccata, vada in realtà ad agire a un livello più viscerale, portando con sé caratteristiche di suggestione, di surrealismo, attraverso immagini che sono al contempo didattiche e sospese, funzionali e magiche. È la magia che mi ha fatto innamorare delle fotografia, il fatto che contenesse informazioni reali, ma parziali. Le zone d’ombra per me rappresentano quella «tasca» di interesse che può continuare a rimanere viva proprio grazie al mistero di quello che ancora non si sa / non si è capito.

 

Mattia Balsamini, Linea di produzione di Maserati MC20, Modena, 2019

Anche in progetti commerciali la metafora del buio sembra caratterizzare la sintassi narrativa. In questi casi qual è la funzione del messaggio?
Credo che il chiaroscuro di cui parla in contesto industriale possa essere sia funzionale, ad esempio occultare delle zone di ridotto interesse nell’ombra, portare l’interesse verso l’azione, il soggetto che più conta, ma anche semantico, ovvero, aumentare la dignificazione e posizionare l’industria rappresentata a un livello alto. Roland Barthes in Mythologies descrive il nero come «colore dell’intelligenza del segno»: toglie il superfluo e creare distanza. Anche nella tecnologia, il lusso contemporaneo si è spostato da «ornamento» a minimalismo visivo. Lo scuro quindi può diventare metafora di modernità rarefatta: meno luce = più selezione.
Nei progetti corporate riesce a mantenere un’autorialità che sembra non cedere alle ingerenze della committenza. O probabilmente è la committenza stessa a voler preservare la riconoscibilità della sua ricerca. Presumo non esista un modus operandi prestabilito, ma esiste un limite al compromesso? 
Ci sono due aspetti credo, come in tutte le discipline, attraverso reiterazione ed esercizio si può migliorare esponenzialmente il mondo in cui ci si esprime, e se da un lato il linguaggio diventa sempre più chiaro, più acuto e leggibile, dall’altro c’è l’osservatore e committente che ha strumenti e cultura sempre più affilati per capire da chi vuole farsi raccontare. Quello che sta succedendo è che vengo chiamato a portare la mia visione in dialogo con una committenza già molto acculturata e preparata. Esiste senz’altro il compromesso, lì è terreno di fatica di negoziazione per produrre sempre qualcosa di cui andare fieri.
La tecnologia sembra interessare buona parte della sua progettualità (commissione e ricerca), come fosse un parametro attraverso cui decifrare quello che ci sta intorno, le nostre identità sempre più fragili, i nostri desideri.
È una lente efficace per osservare il presente perché permette di far emergere fenomeni che spesso restano invisibili — come l’inquinamento luminoso o le trasformazioni dei ritmi naturali. Mi interessa il suo carattere ibrido: può essere precisa, ma anche evocativa, capace di muoversi tra il reale e l’immaginario. Attraverso la tecnologia posso lavorare sul tempo dell’immagine, alternando lentezza e immediatezza, analogico e digitale, visibile e invisibile. E poi è un terreno d’incontro: mette in dialogo fotografia, scienza, ecologia, trasformando l’immagine in uno spazio di riflessione più che di semplice rappresentazione.
Si è spesso confrontato con la dimensione del libro d’artista, perché questa scelta o forse necessità?
È ancora il mezzo più concreto, tradizionalmente poetico e permanente in cui racchiudere un lavoro di immagini e testi. Pagina dopo pagina c’è la possibilità di «imporre» una narrazione diversa da quella quotidiana e frammentaria. Nel photobook individuo la possibilità, oltre che di un tempo più lento, di una certa aulicità e monoliticità. Fare un libro è poco ecologico e costoso. Il senso dell’importanza di un lavoro fotografico autoriale deve per forza passare da questo, da una presa di coscienza della responsabilità.

Andrea Tinterri, 20 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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