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Dai graffiti alla tela, al vetro: SpazioC21 di Reggio Emilia presenta la prima personale in Italia di EGS
- Andrea Tinterri
- 09 novembre 2025
- 00’minuti di lettura
EGS durante la lavorazione del vetro
Courtesy Paolo Pellegrin
EGS: «Quando trasgredisco, raggiungo la pace mentale»
Dai graffiti alla tela, al vetro: SpazioC21 di Reggio Emilia presenta la prima personale in Italia di EGS
- Andrea Tinterri
- 09 novembre 2025
- 00’minuti di lettura
Andrea Tinterri
Leggi i suoi articoliEGS (Helsinki, Finlandia, 1974) inizia giovanissimo la sua ricerca artistica con l’urgenza di esprimere la sua creatività in spazi pubblici non autorizzati e individua, nelle tre lettere del suo nome d’arte, un linguaggio visivo capace di tradurre e filtrare istanze politiche e sociali spesso protagoniste della sua pratica. Consegue un BA in Graphic Design alla University of Arts di Londra e dal 2005 affianca alla sua ricerca in strada quella in studio, approfondendo la dimensione della tela e della carta, della pittura e dell’acquarello. A partire dal 2015 inizia a esplorare anche la dimensione del vetro soffiato, la cui imprevedibilità ricorda quella del graffito, tracciando così un ipotetico filo rosso tra le pratiche, un percorso di continuità ideale.
Il 15 novembre SpazioC21 di Reggio Emilia inaugura la prima personale in Italia di EGS, «Invisible Identity», che raccoglie sia opere pittoriche sia una nuova importante produzione in vetro soffiato che ha visto coinvolte sia la fabbrica di Lasismi a Riihimäki in Finlandia sia l’antica vetreria veneziana di Seguso. Abbiamo intervistato l’artista per approfondire la sua ricerca e la mostra italiana.
Come nasce la tua ricerca e qual è la comunità con cui ti sei inizialmente confrontato?
Ho iniziato con i graffiti nel 1986-87, prima osservando e cercando di carpire questa forma d’arte e i suoi segreti, poi un po’ più tardi dipingendo muri e treni. Le informazioni erano scarse: solo un paio di libri, qualche film e una manciata di articoli. Tutto era molto fai da te e analogico. La comunicazione e il networking richiedevano molto lavoro di squadra: le fotografie venivano scambiate per posta, le fanzine circolavano di mano in mano. La comunità era internazionale fin dall’inizio: lettere e stile ci collegavano oltre i confini.
Continui anche oggi a lavorare in spazi pubblici non autorizzati?
Sì, continuo a dipingere graffiti in giro per il mondo. Quell’energia e quella libertà rimangono essenziali per la mia pratica. Per me, apportano una nuova prospettiva al mio lavoro: uno strano equilibrio tra stress e relax. È curioso come qualcosa di non autorizzato possa portare pace mentale. È anche pratica: un esercizio costante nella scelta di colori e forme. Come un enorme album da disegno, grande quanto un mappamondo.
Quando hai iniziato a lavorare sulla tela e perché hai voluto sperimentare una dimensione che fosse diversa da quella del muro?
Ho iniziato con lavori su carta intorno al 2005: bianco e nero, inchiostro su carta, molto puritani. Un segno che riecheggiava l’estetica dei graffiti illegali. In seguito ho iniziato ad aggiungere colore e a muovermi su tela. La tela mi ha dato lo spazio per rallentare, per esplorare l’astrazione e la gestualità con un ritmo diverso rispetto alla strada.
Perché la necessità di approdare a una materia così fragile come il vetro?
Il vetro, come i graffiti, è imprevedibile e fragile. Può rompersi in qualsiasi momento, ma può anche durare per secoli. Questa tensione tra vulnerabilità e permanenza mi affascina. Entrambi i processi contengono elementi di pericolo e imprevedibilità. Il lavoro richiede adrenalina, decisioni rapide ed espressione.