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Andrea Tinterri
Leggi i suoi articoliA vent’anni dalla prima apparizione a Berlino e dopo numerose tappe tra cui la Biennale di Istanbul nel 2022 e la Biennale di Venezia nel 2024, Disobedience Archive approda in Argentina alla Fundación Proa di Buenos Aires. L’occasione per intervistare il suo ideatore, Marco Scotini, e riflettere sulle dinamiche estetiche e politiche di un archivio dinamico e in continua espansione, un progetto curatoriale che si fa opera d’arte assumendosi la responsabilità della disobbedienza e della controinformazione.
Una nuova tappa di Disobedience Archive è stata inaugurata il 10 maggio alla Fundación Proa di Buenos Aires. Come ogni volta il progetto, per sua natura dinamico e generativo, si adatta o sabota lo spazio che lo ospita, come se l’archivio fosse una creatura viva che cresce, muta, dialoga o combatte con il territorio su cui insiste. In questo caso che sembianze assume il dispositivo?
Il progetto Disobedience Archive deve molto all’Argentina, fin dalla sua origine nel 2004/ 2005. Una delle sue sezioni si è intitolata, per anni, “Argentina Fabrica Social”. Mi riferisco alla crisi economica del dicembre 2001 e alla rivolta argentina contro il neoliberismo, a cui le soggettività insorgenti avevano dato risposte artisticamente sorprendenti e socialmente innovative. Dunque, quando Adriana Rosemberg, direttrice di Fundación Proa, mi ha invitato ho pensato che Disobedience Archive – in un certo senso – tornasse a casa. Per questo con l’artista ecuadoregno Adrian Balseca abbiamo pensato a “la calle” come spazio contestuale per questa presentazione a Buenos Aires: mi tornavano in mente gruppi come Les Madres e H.I.J.O.S. che usavano spazio pubblico e memoria, i piqueteros con i loro blocchi stradali, i cacerolazos come manifestazioni spontanee e rumorose di protesta popolare con casseruole e altri oggetti di cucina, gli escraches con le loro denunce pubbliche e teatralizzate sotto il domicilio degli esponenti delle classi dirigenti lasciati impuniti dalle leggi. Balseca ha trovato nelle transenne metalliche l’elemento base per poter costruire tutta una grammatica dell’exhibition display. La transenna viene utilizzata per la delimitazione stradale e la recinzione temporanea di aree in piazze e luoghi pubblici in occasioni di grandi assembramenti di persone per manifestazioni sociali e dimostrazioni politiche, oltre che per concerti. Ma quello che incontri nella vicina Plaza de Mayo con il suo obiettivo preciso, a Proa 21 lo trovi ribaltato, capovolto, con una funzione creativa. In sostanza il limite imposto dal dispositivo si trasforma da vincolante a generativo, da repressivo a eversivo. Ecco che cosa significa profanazione, sabotaggio, essere “dentro e contro”.
Il presidente dell’Argentina, Milei, si definisce anarco-capitalista, la situazione contingente della Nazione che ospita, di volta in volta, Disobedience Archive condiziona la selezione delle immagini video? Nel corso degli anni ci sono stati episodi di censura?
Fin dalla sua origine Disobedience Archive si definisce come un archivio itinerante e in espansione: cresce, si amplia, si situa in un contesto piuttosto che in un altro senza pretese universaliste ed astratte – secondo quell’idea di situated knowledges di matrice femminista che trova in Donna Haraway uno dei suoi sostenitori. Ad ogni tappa c’è anche una nuova ricerca, a carattere locale, che integra il gruppo di artisti precedenti. Nel caso argentino i collettivi presenti sono Grupo Etcetera e il polo femminista Grupo de Arte Callejero, assieme ad artisti e attivisti latinoamericani come Carlos Motta, Seba Calfuqueo, Maria Galindo & Mujeres Creando, Daniela Ortiz, Pedro Lemebel e ad un film messicano della regista iraniana Bani Khoshnoudi, oltre ad artisti che spendono molto tempo in Argentina come Marcelo Exposito. Anche le sezioni, che qui sono quattro, sono tarate o re-archiviate in rapporto a temi e situazioni contestuali. A proposito di ricerca in situ vorrei ricordare il caso di Istanbul quando, immediatamente dopo le grandi rivolte di Gezi Park, Disobedience Archive fu invitata da una istituzione per l’arte contemporanea molto importante come Salt Beyoglu. Fu condotta una estesa ricerca di diversi materiali non solo video ma poi, prima dell’opening, parte della sala dedicata alle insorgenze turche fu censurata. Anche se, nonostante tutto, nel tempo della mostra lo spazio espositivo fu utilizzato come rifugio franco e temporaneo durante le retate per strada da parte delle forze dell’ordine. La scelta delle immagini video affonda sempre nel contesto specifico ma non è mai condizionata dalle conseguenze che poi ci potrebbero essere.
La prima apparizione del progetto è stata nel 2005, la necessità di una contronarrazione che faccia emergere istanze spesso ignorate o volutamente occultate è cambiata nel tempo? La sensibilità del “sistema dell’arte” sembra essere più ricettiva o è solo apparenza?
Direi proprio di sì. Disobedience Archive in questi venti anni è stata una cartina tornasole anche in rapporto alla trasformazione dei pubblici e delle istituzioni artistiche. Quando il progetto viene aperto alla Kunstraum Kreuzberg Bethanien, Berlino (contrariamente a ciò che oggi è diventata) era allora l’unica città in grado di ospitarlo. Nonostante anche a Berlino i giornalisti mi chiedessero se fosse arte o meno quella che avevano di fronte, in Italia - al Castello di Rivoli - il progetto arriva solo dopo dieci anni. Tra il 2004 e il 2006 le mostre che hanno un dichiarato carattere politico sono cinque nel mondo e potrei citarle tutte. La difficoltà a comprendere Disobedience Archive non nasceva solo dai contenuti ma anche dal format dell’archivio che allora non era frequentato. Perché mettere in scena tante opere che non si possono vedere? Era allora una domanda consueta. Comunque, sono passati venti anni e l’archivio in arte è diventato una tendenza come il rapporto tra arte e politica. Per cui una nuova minaccia neoliberale, da circa un decennio (potremmo dire, dalla crisi finanziaria in poi), capta le aspirazioni libertarie ed estrae valore dai terreni della rivendicazione sociale che dovrebbero contrastarla, neutralizzando e riassorbendo ogni rottura sull’esclusivo piano dell’espressione senza che questa possa intaccare le relazioni di potere. Questo è ciò che oggi passa per artwashing ma, per fortuna, non c’è solo questo aspetto. Le nuove generazioni vogliono altro e questo altro è sempre, intrinsecamente, politicizzato.
L’anno scorso Disobedience Archive è stata ospitata alla Biennale di Venezia diretta da Adriano Pedrosa che ha scelto come titolo dell’esposizione “Stranieri Ovunque”. In un talk che ci ha visti protagonisti pochi giorni fa, nato dalla collaborazione tra NABA e Società Umanitaria, hai parlato della funzione del font che hai scelto per l’occasione, come fosse un messaggio sottotraccia. In quel caso in che rapporto ti sei posto verso l’istituzione ospitante e che forma ha assunto l’archivio?
Ingenuamente e “da giovane” ho sempre visto le istituzioni dell’arte come strutture libere tanto quanto gli artefatti che presentavano. Molto presto mi sono reso conto dell’opposto. Comunque, quando ho curato il Padiglione Albanese nel 2015, ancora la Biennale di Venezia non era lo strumento coercitivo che oggi è diventato: pieno di divieti, super regolato e vincolato da norme giuridiche. Disobedience Archive non può limitarsi a presentare il dissenso in termini di contenuto. Deve anche dichiararlo, ogni volta, in forme nuove. In questo senso il font che ho usato per la mostra ricalca quello della Biennale di Venezia degli anni Settanta, dopo lo smottamento del 1968. Quando, cioè, si trovava la parola Biennale accompagnata dalla frase “per cuna cultura democratica e antifascista”, come in quella del 1974 contro il golpe di stato cileno. Si fa archivio di tutto e questo serve per rivendicare diritti sul nostro presente.
Vorrei concludere con una domanda che oltrepassa l’esperienza specifica ma ne definisce i confini. Oggi, nella situazione geopolitica che siamo costretti a vivere e subire, è possibile separare la dimensione estetica da quella politica?
Fuori da ogni declinazione morale o impegno sociale, direi che in nessun caso è possibile separare arte e politica. Non c’è mostra d’arte che non sia politica, inevitabilmente: al di là del contenuto espresso. Altro che presunta neutralità dell’estetico! Il discrimine è semmai tra mostre che sviluppano una politica a carattere emancipatorio (come esperimento, come promessa, come trasformazione) e mostre dal carattere egemonico (in senso gramsciano) il cui compito è legittimare l’ideologia dominante. In periodi come quello che stiamo vivendo la cesura tra queste due dimensioni diventa più evidente. Il problema risulta allora: da che parte stai? Nel 1934 a Parigi Walter Benjamin tiene un eccezionale discorso dal titolo “L’autore come produttore”. Attacca subito con la questione se l’autore debba essere libero di non schierarsi oppure se debba invece seguire una tendenza, contrariamente all’autore borghese che non riconosce nessuna alternativa facendo finta di disinteressarsi del problema. Non possiamo, dunque, non prendere posizione.