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Marco Ciatti: lo stesso impegno per ogni oggetto d’arte, anche minore

Cristina Acidini, soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze dal 2000 al 2006, ricorda commossa la dedizione del collega che sapeva mettere in pratica il «triangolo virtuoso»

Cristina Acidini

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Alla salvaguardia del patrimonio artistico d’Italia (e non solo) Marco Ciatti, sia detto senza retorica, ha dedicato l’intera vita professionale, dividendo instancabilmente il suo tempo tra l’amatissima famiglia, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, una delle istituzioni di ricerca e restauro più rilevanti al mondo, e molteplici esperienze di docenza: per questo la sua scomparsa, sabato 20 aprile all’età di 68 anni, lascia un così profondo vuoto nella cultura internazionale.

Nato a Prato e laureato nell’Università di Firenze in storia dell’arte, dopo i primi anni di servizio presso la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Siena, Ciatti era arrivato all’Opificio nel 1984 chiamato da Antonio Paolucci, che dirigeva allora il Laboratorio della Fortezza da Basso, e che sarebbe divenuto soprintendente nel 1986. A lungo, con straordinaria sapienza, Ciatti ha guidato nel Laboratorio di restauro il settore dei Dipinti mobili, con la falegnameria collegata, e il settore di restauro dei manufatti tessili, sviluppando intanto approfondimenti sulla teoria e la storia del restauro che avrebbe riversato nella sua vastissima produzione di saggi e libri e nell’insegnamento, anzitutto nella Scuola per restauratori dell’Opificio stesso.

 Nell’Opificio ha operato per trentotto anni da funzionario e poi da soprintendente fino al 2022, anno del pensionamento, dedicando all’Istituto competenza vastissima e umanità generosa.

Era un piacere averlo per collega (nel mio caso in stretta collaborazione quand’ero Soprintendente dell’Opificio, dal 2000 al 2006, e poi a più riprese): uomo sapiente, elegante e pacato e insieme combattente discreto e tenace, nel fronteggiare le difficoltà della vita come quelle di una professione che ha amato con dedizione appassionata. È inevitabile e anzi doveroso associare al suo nome interventi sui capolavori degli artisti maggiori: Beato Angelico, Botticelli, Caravaggio, Cimabue, Gentile da Fabriano, Giovanni Pisano, Giotto, Filippo Lippi, Leonardo da Vinci, Mantegna, Raffaello, Rosso Fiorentino, Vasari...

 Ma il valore del suo lascito risiede anche in aspetti meno visibili del suo operato. Tra questi la sua premura per ogni oggetto d’arte, anche marginale e minore. La tenace difesa dell’unità di metodo, teorizzata dal nostro grande predecessore Umberto Baldini, che toglieva il restauro dal campo dell'improvvisazione soggettiva e delle ricette arcane per collocarlo all’incrocio tra riflessione filosofica, ricerca scientifica, manualità d’eccellenza. La messa in pratica del «triangolo virtuoso», nell’azione contemporanea e coordinata di tre profili professionali: storico dell’arte-scienziato-restauratore. La comunicazione dei risultati di tanta ricerca e operatività, sia entro la comunità degli studiosi, sia nell’ambito dell’alta divulgazione con cataloghi di mostre, sia infine nell’insegnamento dentro e fuori dall’Opificio.

«Per tutti, di volta in volta, soprintendente, collega, amico, fino all’ultimo ha seguito con passione il suo istituto che, in lunghi anni di autentico servizio ha contribuito a far crescere»: così l’Opificio delle Pietre Dure ha condiviso il dolore della famiglia sul sito istituzionale, dando voce a una vasta comunità che si è ritrovata e riconosciuta nel portargli l’ultimo saluto.

Cristina Acidini, 23 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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