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Ritu Sarin e Tenzing Sonam

Photo: Alessandro Muner

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Ritu Sarin e Tenzing Sonam

Photo: Alessandro Muner

#MaoTempoPresente: Ritu Sarin e Tenzing Sonam

La nuova rubrica di interviste con lɜ artistɜ che reinterpretano il museo torinese attraverso il contemporaneo, a cura di Chiara Lee e Alessandro Muner, in collaborazione con «Il Giornale dell’Arte»

Gli artisti e registi indiano-tibetani Ritu Sarin e Tenzing Sonam lavorano insieme da oltre trent’anni. Dopo aver studiato negli Stati Uniti, hanno lavorato a Londra per molti anni prima di tornare in India nel 1996. Un tema ricorrente nel loro lavoro è il Tibet, che rappresenta un impegno intimo a diversi livelli: personale, politico e artistico. Hanno realizzato diversi documentari pluripremiati, tra cui «The Sun Behind the Clouds» (2009), vincitore del Vaclav Havel Award al One World Film Festival di Praga e Dreaming Lhasa (2005), prodotto da Richard Gere e Jeremy Thomas, e presentato in anteprima al Toronto International Film Festival del 2006. 
La loro opera più recente, «The Sweet Requiem», un lungometraggio narrativo con un cast interamente tibetano, è stata presentata in anteprima al Toronto International Film Festival nel 2018. Loro installazioni video sono state esposte in importanti rassegne internazionali, tra cui Kochi-Muziris Biennale (Kerala, India), Savvy Contemporary (Berlino), Istanbul Biennale, Contour Biennale 8 (Mechelen, Belgio), Busan Biennale (Corea), Mori Art Museum (Tokyo), Thyssen-Bornemisza Art Contemporary e Khoj Studios (Delhi). Sarin e Sonam sono anche direttori del Dharamsala International Film Festival, uno dei principali festival di cinema indipendente in India, da loro fondato nel 2012.

Li abbiamo incontrati in occasione della terza edizione di «Declinazioni Contemporanee», il programma del Mao-Museo d’Arte Orientale di Torino che invita artistɜ contemporaneɜ a interagire con le collezioni e a rileggerle in una nuova ottica. 

Nella galleria Asia centro-meridionale e Regione Himalayana del museo, Sarin e Sonam presentano un'installazione sonora con video proiezione che offre una lettura inedita dei manufatti del monastero tibetano di Densatil*, in un allestimento rinnovato e immersivo che dà voce alla scultura di Virūḍhaka, Re Guardiano del Sud.

Chiara Lee: Al Mao inaugura una vostra installazione sonora che intreccia memoria e suono. Come è nata e che cosa vi ha ispirato nella sua realizzazione?
Tenzing Sonam: Tutto è iniziato quando abbiamo incontrato Davide Quadrio, direttore del Mao, a Delhi qualche anno fa. Ci ha invitati al museo e ci ha mostrato la straordinaria collezione di manufatti religiosi tibetani, in particolare quella di Densatil, il cui fulcro è la splendida statua di Virūḍhaka, il Re Guardiano del Sud. Ci ha chiesto di realizzare un intervento che mettesse in risalto questa collezione, così abbiamo deciso di creare un’installazione sonora. Uno dei temi a cui teniamo di più, e che esploriamo spesso nei nostri lavori riguarda la questione di come i manufatti religiosi tibetani, oggetti sacri appartenenti a monasteri e templi del Tibet, siano finiti nei musei e nelle collezioni private di tutto il mondo. Per esempio: come è arrivato a Torino il Re Guardiano? È una domanda che ci siamo posti spesso durante le nostre ricerche, e ci è sembrato perfetto realizzare un’installazione sonora che desse voce proprio al Re Guardiano, permettendogli di raccontare la sua storia in termini umani e personali, spiegando come è arrivato fin qui. Attraverso questo gesto speriamo di stimolare un dibattito sulla provenienza dei manufatti religiosi conservati nei musei e, allo stesso tempo, di ricordare che oggetti come il Re Guardiano, così come le altre statue del museo, rimangono oggetti sacri, che conservano ancora oggi un profondo significato religioso per i praticanti del buddhismo tibetano.

C.L.: Siete registi, ma anche i fondatori di un film festival indipendente a Dharamsala. Che cosa vi ha spinti a fondare questo tipo di festival e per di più in un luogo così speciale?
Ritu Sarin: Da registi, io e Tenzing abbiamo partecipato a molti festival cinematografici e viviamo a Dharamsala ormai da circa trent’anni. Ci siamo resi conto che lì non c’era nulla di contemporaneo, a livello culturale, e pensavamo fosse molto importante, per la comunità locale (tibetani, indiani e tutte le persone provenienti da tutto il mondo che vivono lì) confrontarsi con questioni contemporanee. Il cinema può emozionare, raccontare storie da tutto il mondo e creare connessioni profonde; così, nel 2012, abbiamo avviato un festival per la comunità locale. L’idea era quella di un piccolo festival in una città senza cinema, nato come progetto per la comunità, ma in breve tempo è cresciuto: persone da tutta l’India hanno iniziato a partecipare e a seguirci, credo in parte perché è un festival diverso dal solito: si svolge in montagna, in una grande scuola, è una sorta di pop-up in stile indipendente… Essendo noi stessi registi indipendenti diamo grande valore al lavoro di registi come noi, che sono al centro del festival, mentre molti festival nel mondo, anche in India, ruotano attorno alle star, ai grandi nomi. Noi non lo abbiamo mai fatto, ci siamo sempre concentrati sul cinema indipendente e credo sia per questo che il festival funzioni così bene e abbia avuto questo successo. Quest’anno siamo arrivati alla quattordicesima edizione.

Un particolare della statua di Virūḍhaka, Re Guardiano del Sud, conservata al Mao di Torino. Photo: Alessandro Muner

C.L.: Il vostro lavoro indaga la condizione del popolo tibetano dal punto di vista dell’esilio. In che modo riuscite a rappresentare un popolo e una lotta che sono spesso filtrati dal silenzio, dal displacement o da immagini idealizzate?
T.S.: Dharamsala è il centro della diaspora tibetana, diffusa oggi in tutto il mondo. Qui vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio; per i tibetani in esilio, così come per quelli che vivono in Tibet, Dharamsala è il simbolo di un Tibet libero che invece non esiste all’interno del Tibet, perché è strettamente controllato dalla Cina. Parte del nostro lavoro è evidenziare la situazione politica in Tibet e le sue conseguenze, perché spesso in Occidente l’idea di Tibet è filtrata dalla rappresentazione del Buddhismo e da un’immagine più «gentile» della cultura tibetana, ignorandone la dura realtà e la drammatica situazione politica. Nei nostri documentari, film e installazioni artistiche sottolineiamo questi aspetti spesso trascurati nel discorso generale. Allo stesso tempo pensiamo che sia fondamentale che siano i tibetani stessi a raccontare le proprie storie: c’è una differenza tra qualcuno che racconta la tua storia dall’esterno, per quanto solidale, e il raccontarla tu stesso. Abbiamo cercato di farlo nel nostro lavoro, incoraggiando anche altri tibetani in esilio a trovare la propria voce. Oggi molte giovani generazioni di filmmaker tibetani stanno emergendo, realizzando i propri film e raccontando le proprie storie: un vero movimento di voci creative nato all’interno della comunità in esilio.

C.L.: Trovo significativo che, oltre a incoraggiare altrɜ artistɜ a trovare la propria voce, in questo progetto siate riusciti a dar voce al Re Guardiano. Come avete costruito la sua storia? Come avete lavorato sul suono?
R.S.: Abbiamo sempre lavorato con le immagini e questa è la prima volta che realizziamo un’installazione sonora. Credo sia stato perché volevamo davvero dare voce al Re Guardiano e pensavamo che un racconto di fantasia fosse il modo giusto per farlo. Abbiamo fatto molte ricerche su Densatil e sugli oggetti religiosi tibetani, statue e altri manufatti, e sui complessi percorsi che li hanno portati all’estero, tra mercati dell’arte e scambi. Ci è sembrato che il modo migliore per coinvolgere il pubblico in questo contesto fosse proprio attraverso un’opera sonora... Lavorarci è stato un grande piacere, perché ci ha liberato dal pensare solo alle immagini, che è ciò che facciamo di solito, e ci ha permesso di concentrarci sui suoni d’archivio, collaborando con compositori. È stata un’esperienza emozionante e spero che realizzeremo altre installazioni sonore come questa.
T.S.: Abbiamo cercato di raccogliere suoni dal passato, molti dei quali provengono da registrazioni di «ruote di preghiera»** di vari monasteri tibetani, dai suoni che producono quando vengono fatte girare. Si tratta di registrazioni effettuate tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, perché volevamo ricreare l’atmosfera del monastero di Densatil prima della sua distruzione. Abbiamo fatto molte ricerche per raccogliere questi suoni e per comporre una musica che funzionasse con la voce del Re Guardiano.
R.S.: Anche dare voce al Re Guardiano e tradurla dal tibetano all’inglese è stato impegnativo. Ci chiedevamo: come parlerebbe? Che cosa direbbe? È stato un processo complesso, ma ci ha spinto a riflettere su molti temi.

 

NOTE: 

* Il Monastero buddhista di Densatil, fondato nel 1198, fu uno dei monasteri più straordinari del Tibet, celebre per i suoi imponenti stupa tashi gomang, reliquiari a più livelli riccamente decorati con sculture e bassorilievi buddhisti. Come gran parte dei circa 6mila monasteri tibetani, fu distrutto durante la Rivoluzione Culturale cinese. Negli anni Ottanta, con l’apertura della Cina, alcuni dei tesori di Densatil riemersero sul mercato internazionale, trovando nuova collocazione in collezioni museali e private. Tra questi, la statua del Re Guardiano del Sud, oggi conservata al Mao, testimonia tanto la bellezza di ciò che è sopravvissuto quanto la perdita irreparabile subìta dal patrimonio spirituale tibetano.

** Le «ruote da preghiera» tibetane sono cilindri cavi contenenti rotoli di carta con mantra. Girandole in senso orario, i fedeli accumulano meriti e diffondono le preghiere nel vento. Possono essere tascabili, da portare a mano, o di grandi dimensioni, fissate su muri di templi e monasteri; alcune, imponenti, si trovano all’ingresso dei luoghi di culto e sono decorate con pitture o incisioni.

Intervista a cura di Chiara Lee
Riprese e montaggio a cura di di Alessandro Muner

Chiara Lee, 14 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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