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Installation view della mostra «Di traverso» alla Galleria de' Foscherari

Foto Francesco Ribuffo. Courtesy Galleria de’ Foscherari

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Installation view della mostra «Di traverso» alla Galleria de' Foscherari

Foto Francesco Ribuffo. Courtesy Galleria de’ Foscherari

Lo sguardo obliquo, «di traverso», alla Galleria de’ Foscherari

La collettiva bolognese esplora l’arte come zona d’incertezza, tra ambiguità e possibilità narrative

Nella sua lunga storia, la bolognese Galleria de’ Foscherari ha saputo spesso intercettare quelle «traiettorie fuori asse» che, nel panorama artistico contemporaneo, più che deviazioni, si rivelano veri e propri atti di resistenza. La collettiva «Di traverso», curata da Enrico Camprini, è l’ultimo esempio di questa attitudine: non una mostra tematica, non un’antologia di tendenze, ma un’operazione critica sul modo stesso di intendere e abitare la pratica artistica oggi. Il titolo, volutamente ambiguo e colloquiale, è già dichiarazione di poetica. «Di traverso» non è solo un’espressione comune, è una direzione contraria, una postura difensiva o ostile, ma anche l’eco di una marcia sghemba, di un andare contro o semplicemente altrove. È in questa eterogeneità semantica che si gioca la chiave di lettura della mostra. Camprini non cerca affinità o una narrazione comune: riunisce, piuttosto, gli artisti intorno a una condizione condivisa, un’inquietudine epistemologica, una volontà di sospendere il giudizio, di tenere aperto il senso.

 

Installation view della mostra «Di traverso» alla Galleria de' Foscherari. Foto Francesco Ribuffo. Courtesy Galleria de’ Foscherari

I nomi coinvolti, Eva Marisaldi, Liliana Moro, Luca Bertolo, Giuseppe De Mattia, Enej Gala, sono portatori di linguaggi diversi e percorsi generazionali distanti. Eppure, come si precisa, è proprio questa distanza a permettere il cortocircuito. Marisaldi e Moro, figure storiche dell’arte italiana contemporanea, incarnano uno sguardo laterale consolidato: quello di chi ha sempre guardato il reale con dubbio e ironia, lavorando con le crepe del quotidiano. Di contro, Gala e Bertolo si misurano con media classici come scultura e pittura, ma con un piglio quasi sabotatore, teso a rinegoziarne senso e funzione. De Mattia, infine, costruisce le sue narrazioni a partire da un’appropriazione dichiarata: il furto (a fin di bene) di storie altrui diventa un gesto etico, un atto poetico di restituzione.

«Quando qualche mese fa iniziavo a immaginare questa mostra – spinto dal desiderio di mettere in relazione opere di artiste e artisti in alcuni casi così distanti – mi interrogavo sulle sue ragioni e sul modo di renderle esplicite prescindendo dalle corrispondenze visive e concettuali che via via apparivano, nell’avvicendarsi delle idee condivise e dei singoli lavori scelti. Tali ragioni, infatti, hanno certo a che fare con la specificità delle opere, ma anche con la condizione che ne determina l’esistenza, come una sorta di premessa attitudinale nei riguardi della pratica artistica e della sua ricezione. Definirla in senso stretto non è cosa semplice: una simile attitudine si potrebbe ritrovare in un’affinità con l’opacità, il silenzio e l’ambiguità, così come in un’attrazione per la leggerezza, il gioco e il paradosso. La dimensione poetica e immaginativa che ne deriva si colloca rispetto alla realtà, alla nostra esperienza e ai processi artistici stessi, in modo obliquo e diagonale; alla descrizione, all’intento dichiarativo, si preferiscono forme di posizionamento – ogni opera implica
un posizionarsi – che ammiccano all’apertura di un campo di significati in divenire», scrive nel testo critico Camprini.

La mostra costruisce così un campo ipotetico. Le opere si offrono come oggetti da decifrare, ma anche come attivatori di dissonanze: coinvolgono lo spettatore, lo destabilizzano, lo pongono al centro di una tensione che è tanto estetica quanto concettuale. Non vogliono spiegare, né rassicurare: preferiscono lasciare domande sospese, tracce che non portano necessariamente a un approdo. Elogio dell’ambiguità, il percorso è una difesa dell’indefinito, una mostra che si sottrae al bisogno di senso per ricordarci che l’arte, oggi più che mai, ha bisogno di spazi non definiti, di possibilità laterali, di deviazioni fertili. Alla Galleria de’ Foscherari, fino al 20 settembre, si celebra proprio questo: lo scarto come metodo, l’obliquità come scelta poetica.

 

Monica Trigona, 04 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Lo sguardo obliquo, «di traverso», alla Galleria de’ Foscherari | Monica Trigona

Lo sguardo obliquo, «di traverso», alla Galleria de’ Foscherari | Monica Trigona