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Dadamaino nel suo studio, foto di Vittorio Pigazzini

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Dadamaino nel suo studio, foto di Vittorio Pigazzini

L’inconfondibile segno di Dadamaino

Il focus della mostra alla galleria Frittelli sono gli anni tra i Settanta e i Novanta in cui l’artista milanese riscopre il valore del segno

Alessandra Ruffino

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Gli spazi della galleria Frittelli ospitano fino al 4 giugno la monografica «Dadamaino. Il movimento delle cose», curata da Flaminio Gualdoni con la collaborazione con Paolo Campiglio e realizzata grazie al contributo dell’Archivio Dadamaino. L’esposizione si concentra in particolare sulle serie realizzate tra gli anni Settanta e Novanta, quando l’artista riscopre il valore del segno in cicli quali «L’inconscio razionale» o «L’alfabeto della mente», dando corpo a delle personalissime cosmologie.

Figura di rilievo dell’avanguardia milanese, nell’orbita di «Azimut/h», galleria e rivista fondate da Manzoni, Castellani e Bonalumi, Dadamaino (al secolo Edoarda Emilia Maino, 1930- 2004) è stata in contatto con il Gruppo Punto, il Gruppo N, con il Grav parigino e col gruppo Zero, con l’olandese Nul e col movimento internazionale Nuove Tendenze, confrontandosi su scala internazionale con le più avanzate ricerche di Arte Cinetica, Op art, Cibernetica e Spazialismo.

Dopo una prima fase di ispirazione astratto-informale, l’artista si è impegnata nel superamento della pittura attraverso i «Volumi» per poi orientare la propria attenzione sullo studio di colori e materiali che l’hanno portata a sperimentare con vernici fluorescenti e stimoli cinetici. Dagli anni Settanta, con il ritorno al segno, appunto, ha concepito gli scenari stellari delle «Costellazioni» (anni ’80) e ha dato vita a «Passo dopo passo», «Il movimento delle cose» e «Sein und Zeit», cicli eseguiti su fogli di plastica trasparente (poliestere), spesso dispiegati nello spazio come installazioni ambientali e accomunati dal senso del ritmo, da una piena libertà di tracciato e da una sorta di vibrazione perpetua.

«Il movimento delle cose, spiegava Dadamaino nel 1990, consiste nella rappresentazione, metaforica naturalmente, di un destino o di un insieme di destini, biologici ed esistenziali. Sono i ritmi delle persone che si incontrano, si amano, pulsano e si muovono, cambiano».
Avvicinarsi all’opera di Dadamaino con queste chiavi, significa raccogliere la sfida all’infinito generata dalla riflessione (e dall’azione) dell’artista su un segno che, come scrive Gualdoni, «prende a moltiplicarsi come per proliferazione cellulare, a inseminare la superficie seguendo corsi divergenti, addensati rarefatti, intensivi levitanti, attratti dispersi... non costrutto, equilibrio, bensì tensione circolante e ricca».

Dadamaino nel suo studio, foto di Vittorio Pigazzini

«Il movimento delle cose» (1989) di Dadamaino

Alessandra Ruffino, 08 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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