Lesley Lokko. Foto Jacopo Salvi, cortesia della Biennale di Venezia

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Lesley Lokko. Foto Jacopo Salvi, cortesia della Biennale di Venezia

Lesley Lokko: «La storia dell’architettura è elitaria e incompleta»

La direttrice della 18ma edizione della Biennale di Venezia ha concepito una mostra-laboratorio giovane, collettiva, con poche archistar e molte donne

«Futuro, cambiamento, nuove narrazioni». Il mondo di Lesley Lokko, architetta-scrittrice (o scrittrice-architetta), sbarca in Laguna con modi gentili ma approcci decisi. Fuori da Ca’ Giustinian si festeggia il Martedì grasso, lei illustra con precisione la sua Biennale di Architettura: il titolo («Il Laboratorio del futuro», appunto), le sei sezioni, il programma di eventi collaterali, la grafica.

La Biennale di Architettura arriva alla maggiore età, è la 18esima edizione. Viene celebrata con la terza curatela femminile, la prima in assoluto africana. Quasi scontato parlare di momento rivoluzionario.
Diciamo che è una combinazione di fatti. Gli ultimi anni hanno messo in primo piano questioni che erano marginali: oggi identità, giustizia, equità sono al centro dell’immaginario. La scelta di affidarmi la Biennale è figlia di questi tempi. Credo sia stata coraggiosa: non ho grandi strutture o istituzioni alle spalle. E nemmeno uno studio professionale di rilievo. Mi piace pensare sia una scelta sperimentale.

Rivoluzionaria, a suo modo. Non piace questo aggettivo?
Non che non mi piaccia, faccio però fatica ad aggettivare in questo modo l’architettura. Che è una disciplina che ha tempi lunghi, che non può risolvere all’istante le aspettative che le persone le affidano.

Poche archistar e nomi noti, ancora meno grandi studi. Molti giovani e collettivi interdisciplinari, tante donne. Cambia radicalmente lo scenario che i visitatori troveranno ai Giardini e all’Arsenale.
Decisamente. Nell’architettura la voce dominante è stata storicamente singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità. La storia dell’architettura è quindi incompleta. Non sbagliata, ma incompleta. Ecco perché le mostre sono importanti. Costituiscono un’occasione unica in cui arricchire, cambiare o raccontare una nuova storia.

Fatta di che cosa?
Presento una visione che credo sia una fortissima metafora dell’identità dell’architettura del futuro. La diaspora africana nel mondo è legata dalla storia ma non ha un luogo specifico, è fluida, intrecciata e abbraccia il mondo. Una cultura che troviamo dispersa in tante nazioni: permea lingue, identità ed eredità. Va oltre i passaporti e i confini. Mi sembra interessante osservarla, nel percorso di ibridazione che coinvolge tutte le società.

Parlare oggi di Africa significa quindi parlare del mondo?
Certamente sì. Tanti architetti africani sono capaci di produrre progetti e idee straordinarie. Fanno cose diverse dai loro colleghi occidentali o del Medio Oriente. Con il nostro programma diamo spazio al loro ruolo di agenti del cambiamento.

Per raccontare questa nuova storia serve un’architetta che è anche scrittrice?
Forse sì. Per me architettura e scrittura sono la stessa cosa. Certo, gli strumenti sono diversi. E anche i metodi: scrivere è un’azione solitaria, progettare invece nasce dalla collaborazione tra tanti. Ma gli impatti che producono sono identici.

Abbiamo parlato di architetti, in realtà la Biennale targata Lokko sceglie un termine diverso, praticamente senza traduzione italiana: practicioner. Copre un campo più ampio della disciplina tradizionale. Vuol dire che tutto è architettura o forse che l’architettura è ovunque?
Entrambe le cose. Abbiamo scelto quel termine perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione più ampia del termine architetto. «Practicioner» deriva dalla parola «praxis». L’ho sentita usare a una persona quando avevo circa 20 anni, riferendosi alle sue molteplici attività legate all’architettura: insegnare, scrivere, costruire, progettare installazioni. Condivido questa idea: ci sono molti modi alternativi per innovare il mondo, ovvero quello che dovrebbe fare l’architettura. Costruire occasioni di conoscenza è tanto importante quanto costruire edifici. Ero convinta di imparare tutto dell’architettura quando ho intrapreso gli studi. Alla fine, invece, mi sono accorta di sapere meno di quando avevo iniziato. E credo sia una buona cosa.

In questi eventi c’è sempre un filo che collega e separa architettura e arte. A maggior ragione alla Biennale, dove l’Architettura è la sorella piccola di una manifestazione più grande come la Biennale Arte.
L’architettura (insieme ad altre discipline come l’ingegneria, la medicina, il diritto) è considerata una professione forte perché conferisce un titolo. Invece l’arte è tradizionalmente ritenuta meno prestigiosa. Anche io avevo questa idea, ora l’ho radicalmente cambiata. Gli architetti sono spesso più interessati a difendere i propri territori che ad aprirsi alle possibili influenze. Nell’arte, nella musica, nella letteratura ci sono confini molto più porosi. E questo permette di assorbire stimoli e suggestioni. Non mi piace un’architettura preoccupata di autodefinirsi, che si concentra sui propri limiti. Credo che debba imparare dall’arte la propensione a contaminarsi.

Possiamo anticipare già adesso il tenore delle critiche, una volta che la Biennale sarà aperta: non c’è l’architettura.
Me le aspetto, sono 30 anni che le sento. Sinceramente non mi interessano molto, non ho l’energia di difendere la mia posizione convincendo gli altri. Ho questa idea forte, la condivido con tanti dei miei studenti. Mi basta.

Questione anche generazionale?
Penso di sì. Una delle cose che più apprezzo del fatto di essere docente è il contatto costante con ragazze e ragazzi più giovani. Significa essere coinvolti in una visione del mondo che è fonte di continua ispirazione.

Sono stati di ispirazione anche questi mesi di preparazione della Biennale?
Sono 9 mesi che lavoriamo intensamente, una vera gestazione. Ho trovato straordinario poter essere in contatto ogni giorno con persone che hanno la capacità di farti ragionare, e qualche volta di farti cambiare idea. Bisogna essere bravi a restare focalizzati sull’obiettivo ma allo stesso tempo disponibili a rivedere certe posizioni. Una mostra è allo stesso tempo un momento e un processo.

Quindi non dobbiamo aspettarci risposte definitive da questo Laboratorio?
Nessuno sa come sarà, il futuro è incerto per definizione. Ma possiamo sperimentarlo. Ecco, la Biennale vuole essere un Laboratorio di soluzioni possibili: uno spazio protetto ma al tempo stesso ibrido e dinamico. Capace di essere creativo pendendosi anche dei rischi.

Non è scontato affrontare il futuro, a Venezia. Molto spesso si è parlato di passato. Come nella prima edizione, quella del 1980: «La presenza del passato».
Venezia e Accra, la mia città, sono due mondi diversissimi, opposti. In Italia sento l’idea della permanenza. L’apprezzo, ma la mia è una cultura differente. C’è il senso della storia, ma tendiamo a ritrovarlo non nelle pietre, ma nelle pratiche sociali. Dare dei giudizi su cosa sia più corretto è impossibile, persino fare dei confronti è assurdo. Ci sono tanti modi diversi di essere nel mondo.

In un quadro dinamico e mutevole, ci sono due parole che, condividendo il prefisso, sembrano prefigurarlo questo futuro: decolonizzazione e decarbonizzazione.
Sono la stessa cosa: giustizia sociale e giustizia climatica sono le due questioni del momento. Per raccontare dobbiamo necessariamente partire da qua.

Chiudiamo con il Carnevale che si festeggia nelle strade di Venezia proprio nel giorno della presentazione della Biennale. Una delle sezioni si chiamerà proprio così.
Metterà insieme musica, poesia, cinema. Ci saranno politici, policymaker, poeti, registi, scrittori, attivisti. Si confronteranno tanti modi diversi di comunicare e di tradurre l’architettura. Credo che presentare il nostro programma proprio in una giornata così speciale sia una fortunata coincidenza. Il Carnevale mi ha sempre affascinato. Non tanto e non solo come intrattenimento e divertimento, ma come una sorta di spazio filosofico di liberazione, in cui è possibile costruire immagini e visioni alternative. Cambiare il punto di vista è proprio la sfida più importante della mia Biennale.

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Michele Roda, 22 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

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