«Ville Fantôme» 1996 di Bodys Isek Kingelez

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«Ville Fantôme» 1996 di Bodys Isek Kingelez

Le città invisibili di Bodys

Al MoMA lo scultore congolese Kingelez, autore di utopici modelli urbanistici

Negli ultimi anni l’interesse per l’arte africana contemporanea è cresciuto, con importanti mostre dal Brasile alla Francia, nuovi musei a Marrakech e a Città del Capo e la fiera 1-54, in perenne espansione, oltre all’attenzione delle grandi case d’asta. Sull’onda di questo nuovo trend arriva al MoMA la prima rassegna negli Stati Uniti del congolese Bodys Isek Kingelez (1948-2015), che dal 26 maggio al primo gennaio offre la possibilità di avvicinarsi in modo nuovo a questo artista visionario. Kingelez, autore di meravigliosi modelli urbani realizzati con giornali e materiale da imballaggio, non fu semplicemente l’autore dei proverbiali castelli in aria.

Come disse lui stesso: «Senza un modello non sei da nessuna parte». Con opere dai primi anni Ottanta alla fine della sua vita, la mostra racconta la storia di come questi modelli affrontarono tematiche urbane, sociali ed economiche. «Pur sapendo quanto fosse improbabile che venissero realizzati mentre lui era in vita, e infatti disse che non eravamo pronti per questo, furono sicuramente una proposta reale e tangibile di come potremmo vivere nel futuro», spiega la curatrice della mostra Sarah Suzuki. «Kimbele Ihunga» è il nome della prima città realizzata da Kingelez, in onore del villaggio natio in cui ha vissuto con la sua famiglia. A questo seguirono altri tre progetti, «Ville Fantôme» (1996), «Project for Third Millennium» (1997) e «City of the Future» (2000). «Ville Fantôme», ad esempio, è una città senza polizia né prigioni. L’opera è accompagnata da un componente di realtà virtuale che consente ai visitatori di entrare nella struttura.

Secondo la Suzuki questo permette alle persone di comprendere «con quale impostazione globale e totale furono concepiti questi modelli». La curatrice sottolinea che il livello del dettaglio è superiore a quanto può essere colto dall’occhio umano (soprattutto in un museo con delimitazioni e sorveglianti). Prima di diventare un artista esposto a livello internazionale alla fine degli anni Ottanta, Kingelez era stato un  insegnante di scuola superiore a Kinshasa, nell’allora Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Iniziò a modellare le prime sculture di carta con forbici, colla e rasoi Gillette, avvicinandosi così alla pratica degli oggetti trovati. «Usava questi materiali per necessità, ma li sceglieva sempre con la massima cura», spiega Sarah Suzuki.

Grazie alla grande attenzione per il dettaglio e all’abilità dimostrati in queste prime opere, il Musée  National du Zaïre (ora Musée  National de Kinshasa) lo assunse come conservatore per le maschere etniche. «In quegli anni poté farsi un’idea più chiara di quello che voleva fare nella sua arte, ovvero, sotto diversi aspetti, operare una distinzione tra l’arte tradizionale per la quale il Congo era conosciuto e quella che lui stava facendo», prosegue la curatrice.

Le esperienze di Kingelez a Kinshasa influirono sicuramente sul suo lavoro. Visse all’ombra dell’architettura coloniale e delle ambiziose strutture fatte erigere da Mobutu Sese Seko dopo la sua salita al potere nel 1965, mentre la popolazione della capitale cresceva rapidamente, superando la capienza delle sue infrastrutture. «Quello che faceva spesso era immaginare uno scenario dove la società funziona alla perfezione e tutte le risorse sono disponibili», conclude la curatrice.
 

«Ville Fantôme» 1996 di Bodys Isek Kingelez

James H. Miller, 25 maggio 2018 | © Riproduzione riservata

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