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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliLacerti di un misterioso, ibrido codice, in cui sembrano confluire iconografie, stili e memorie di civiltà transepocali, dal Medioevo europeo alla scultura maya, sino alla miniatura moghul, ipotizza il critico Pietro Gaglianò, compongono il mondo di cui Simone Pellegrini si è fatto interprete e cartografo, iconografo e visionario trascrittore. Li si vede, dal 24 marzo al 5 maggio, da Cardelli & Fontana.
Pellegrini (Ancona, 1972, vive a Bologna) da anni si dedica all’evocazione di quell’universo senza tempo, in grandi carte istoriate, tatuate, miniate con immagini che rimandano ai riti della fertilità, della ciclicità di una natura che prende forma in nuovi ideogrammi o, come li definisce l’autore «dinamogrammi». Questo infinito atlante, ma anche, guardando ad Aby Warburg, nuovo «Schema di una geografia personale» si manifesta, a un tempo, come «cartografia culturale» (ancora Gaglianò), anatomia di una civiltà arcaica ma che vive, in un subconscio in cui si affaccia il pensiero di Jung e di Nietzsche, in un eterno presente.
Astrazioni e figure, decorazione ed evocazione, accoppiamenti e lotte, fecondità e morte, sono i temi che affiorano in queste carte da decifrare, comunque, all’insegna della visionarietà. Completano la mostra alcuni libri posseduti dall’artista, che integra questi suoi compagni di viaggio con ulteriori suggestioni visive. «Ostrakon», titolo della mostra, richiama con forza l’identità di queste opere come frammenti portatori di messaggi.

«Andante causato» (2017) di Simone Pellegrini
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