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Stefano Miliani
Leggi i suoi articoliVirgilio Sieni è un coreografo-danzatore che crea spettacoli e performance in cui spesso connette a doppio filo gesti e corpi, di professionisti e non professionisti, a dipinti, sculture e spazi urbani. E con uno spirito in cui albergano principi come «accoglienza» e idee sulla «città». Nato nel 1958 a Firenze, con una sua compagnia dal 1991 diventata centro di produzione e con sede in Oltrarno nel capoluogo toscano, Sieni non è solo un punto fermo dell’arte coreutica italiana: con autori come Pontormo, Burri e altri artisti tesse un dialogo fecondo di suggestioni. Lo abbiamo incontrato.
Come si è formato? Lei ha alle spalle anche studi di architettura.
Il mio percorso di formazione è molto articolato. Parlando degli inizi posso dire del mio sentirmi attratto dall’arte fin da quando ero giovanissimo, fino a frequentare il liceo artistico e poi architettura. Ricordo già al liceo l’amore per Piero della Francesca e Giovanni Pisano. Poi è arrivata la passione per l’arte contemporanea: parliamo degli anni Settanta, soprattutto del periodo della Body art. Sono stato molto attratto da artisti come Gino De Dominicis, Pino Pascali o Marisa Merz, più che dall’Arte povera. Con questa attrazione nasceva una certa visione del corpo: ho sempre praticato fin da ragazzo molto sport, come l’aikido, che poi mi è rimasto come disciplina olistica. Penso anche al Living Theatre, a quelli che negli anni Settanta si chiamavano happening più che performance. Questa vicinanza con il corpo mi ha portato lentamente a rendere più raffinato quanto facevo con lo sport e dunque ad avvicinarmi alla danza. Che era già influenzata da un’idea di mondo, potrei dire: pensavo al corpo come qualcosa di svincolato da una serie di cornici linguistiche.
Tra gli spettacoli si ricordano le azioni coreografiche ispirate a Rosso Fiorentino e Pontormo a Firenze. Perché si confrontò con i due pittori del primo Manierismo?
Fu un lavoro a Palazzo Strozzi nel 2014 in occasione della mostra «Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”». Il fatto è che la passione per l’arte mi ha sempre accompagnato. Nel caso del Pontormo e del Rosso parliamo di corpi dipinti che portano con sé il concetto di luce, di irregolarità, un’idea di emarginazione. Le figure del Pontormo si avviluppano secondo un’idea di spirale: non solo di corpo, anche di luce, di gravità. Così il Rosso: basti pensare all’ispirazione che prese Pasolini dalla «Deposizione» per il suo film «La ricotta». Nel Manierismo ritrovo un concetto spaziale fondato su una irregolarità e un’organicità cosmica che rientra nel mio lavoro. E ora le sto parlando dalla Galleria di Palazzo Abatellis a Palermo.
Nella Galleria Regionale della Sicilia ha appena messo in atto, a settembre, il progetto «Officine del gesto», un trittico che ha compreso una lezione e una performance ispirate all’«Annunciata» di Antonello da Messina. Che cosa ci suggerisce, il quadro?
La postura dell’«Annunciata» rimanda al senso dell’accoglienza, è un qualcosa che dona e che tiene. La mano sinistra tiene il velo perché potrebbe aprirsi e scoprire il ventre, la mano destra si sta come sospendendo e sta per mostrare il palmo, è una mano che viene verso di noi per aprirsi. Il dipinto quindi crea uno spazio tattile e in questo momento parlare di spazio tattile è un bel modo per lavorare sul distanziamento.
Restando in Sicilia, questa estate con «Paradise Now#Gibellina» per le Orestiadi 2021 si è confrontato con un’altra opera d’arte: il «Grande Cretto» di Burri a Gibellina vecchia. Lì c’è la memoria del terremoto del 1968 nel Belice.
Burri decise di non lasciare un’opera nuova a Gibellina ma di ricreare sulle macerie la città. La sua opera rimanda alla ricostruzione del paese in memoria della tragedia. È importante dire che il «Grande Cretto» non è un luogo di spettacolo ed esige invece il percorso di un’esperienza. Per questo ho deciso di raccogliere una cinquantina di cittadini e di abitare ogni porzione dell’opera in una forma densa come se fosse un vicolo di una città.
In un altro luogo colpito da un sisma terribile, L’Aquila, a inizio settembre ha realizzato una performance nel preludio al Festival della performance organizzato dal MaXXI aquilano e dall’Accademia di Belle Arti. Qui gli abitanti erano i protagonisti.
I miei percorsi hanno sempre una risonanza tra professionisti e percorsi esperienziali dei cittadini fino a mescolare le due dimensioni. Già a Gibellina si parlava di macerie e tragedia. Anche all’Aquila abbiamo elaborato un percorso che potrei dire di gesti dimenticati. Gli aquilani hanno portato una loro collezione di fotografie di padri, madri, nonni e, insieme, abbiamo fatto un discorso della e nella memoria sul terremoto. Con loro, grazie alla collaborazione del museo aquilano, abbiamo ricostruito un rito pubblico dove tutti, riproducendo lo stesso gesto all’unisono, ripercorrevano un proprio diario fisico di gesti dimenticati.
Lei usa spesso non professionisti e il termine «cittadini». Per quale motivo?
Per due motivi. Il cittadino testimonia l’esistenza di una città, se non c’è non esiste la città. È inutile parlare di Venezia città se ci sono solo turisti, è un’altra cosa. E a me interessa incontrare cittadini che vivono e operano nel luogo, non professionisti. Che per me sono anche un grande arricchimento tecnico e linguistico, ogni persona è diversa con un vocabolario di fragilità, imperfezioni, balbettii, debolezze, smemoratezze, incertezze, e in una dimensione sempre in divenire. E ciò va a far parte di qualcosa che chiamo risonanza, incrinatura.
Parlando di cittadini lei e l’antropologa Sabrina Tosi Cambini con il vostro quaderno «Quarto paesaggio. La città che viene» (pp. 23, ill. col. e b/n, Fondazione Michelucci Press, Fiesole) dirigete e avete appena inaugurato la collana della Fondazione sull’architetto «Arti performative e città». Che cos’è il «Quarto paesaggio»?
È quasi una forma di dialogo con il concetto di «Terzo paesaggio» di Gilles Clement. Dallo scrittore, paesaggista, agronomo e biologo francese raccogliamo molteplici suggestioni come l’attenzione verso gli spazi urbani abbandonati, verso le periferie in cui il tessuto è più rado, per una sensibilità che si coniuga con la convivenza. Il nostro punto di vista è costruire quel «quarto paesaggio» attraverso il gesto. Con la collana della Fondazione Michelucci ci interessa ospitare riflessioni che parlano di come agire attraverso la performance nella città. È passata l’epoca dell’occupazione delle piazze, ci deve essere un modo diverso di stare nelle città, nelle periferie, e di esaltare anche i dettagli più marginali.
La danza si può associare alle arti visive? Nella mostra «American Art 1961-2001» tenuta questa estate a Palazzo Strozzi a Firenze tra le presenze più significative è documentato in video il danzatore e coreografo Merce Cunningham (1919-2009).
Con il ‘900 e soprattutto con gli ultimi quarant’anni la danza non è solo spettacolo tout court, è connessa anche con l’abitare il mondo, con lo stare nello spazio. La danza stessa crea architetture e, anche cognitivamente e percettivamente, una spazialità diversa; mentre la si fa svanisce, non è un’opera materica, però abbiamo capito con le scienze neurali che tutto quello che svanisce viene trattenuto. Dunque è un’arte sempre più collegata al concetto di immagine e dell’arte visiva.
Danza e arte possono invitarci all’accoglienza verso gli altri?
C’è un abuso di questi termini ma mi spiego citando il «Battesimo» di Piero della Francesca alla National Gallery di Londra, pittore che posso considerare un mio carissimo amico frequentandolo da circa quarant’anni: avvicinarsi al dipinto non significa copiare quel movimento, significa assorbire quei gesti, canalizzarli nel corpo, sentire le articolazioni mosse da quell’energia. E tutto il tempo che diamo all’opera d’arte crea una frequentazione, la quale ci fa percepire un’estrema prossimità, nasce un dialogo e in questo senso si parla di spazio accogliente. L’opera ci parla se ascoltata, se le diamo del tempo, perché oggi difficilmente ci fermiamo davanti a un’opera per un’ora. Tra le tante esperienze fatte penso a quella al Museo Archeologico di Napoli. Lì ho tenuto una lezione sul Toro Farnese, su come quelle figure si muovono, davanti a un centinaio di napoletani che sono stati insieme a me per un’ora e poi per mezz’ora davanti alla scultura. Un’ora e mezzo in tutto: è abbastanza rivoluzionario, nei nostri tempi. Così una persona capisce l’importanza di rimanere davanti all’opera e di coesistere con lei. Bisogna trovare quelle strategie per sostarvi davanti. Ricordiamoci che come esseri umani abbiamo bisogno di dialogo.
Per lei la danza e le arti visive possono essere esercizi di democrazia o questa è una retorica che può addirittura nuocere all’arte?
No, no, parlo molto spesso di democrazia. Prima di tutto bisogna fare esercizi di liberazione perché la democrazia è data da quelle leggi stabilite in modo che le persone possano mediare un modo comune di stare insieme. Prima quindi si parla di come liberare il corpo, il che ha a che fare con gli elementi primari dell’uomo come il peso, la gravità, la trasmissione da un arto all’altro. Poi le persone fanno un percorso di conoscenza reciproca perché si impara soprattutto che l’altro mi dà i riferimenti per il mio corpo, non sono io che li trovo dentro di me: è con l’altro che trovo le fonti per ricordarmi le cose. Tutto questo instaura un clima di comunità. Quindi il lavoro che a me interessa fare con il corpo è estremamente democratico: si inizia con persone che prima non si conoscevano, si finisce con gruppi che io chiamo «comunità del gesto» estremamente compatte e solidali.

Virgilio Sieni durante la performance «Dolce Lotta_L’Aquila» al Museo MaXXI L’Aquila nel 2021 © Foto Paolo Porto
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