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Secondo il critico Jonathan Jones «Verity» (2012) di Damien Hirst sembra inventata da un dittatore. Foto Stewart Black © Damien Hirst e Science Ltd.

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Secondo il critico Jonathan Jones «Verity» (2012) di Damien Hirst sembra inventata da un dittatore. Foto Stewart Black © Damien Hirst e Science Ltd.

L’arte in un mondo post-liberale

Le democrazie liberali occidentali hanno a lungo dettato legge su che cosa è «buona» arte e che cosa non lo è. Ma questo potrebbe presto cambiare

Scott Reyburn

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«Bitter Lake» è un documentario del 2015 di Adam Curtis, tristemente premonitore sui nefasti interventi britannici, americani e russi in Afghanistan. Una delle scene più memorabili è quando una storica dell’arte britannica cerca di spiegare la «Fontana» del 1917 di Marcel Duchamp a una classe di donne afghane. La storica spiega che la scelta di Duchamp di adibire un orinatoio a un nuovo utilizzo era un’espressione di libertà politica. Le sue allieve sono del tutto incredule. La cinepresa si sposta sull’insegnante: neanche lei sembra convinta di ciò che sta dicendo.

I tentativi della democrazia liberale di plasmare l’Afghanistan a propria immagine si sono conclusi in un fallimento umiliante, cedendo il potere ai talebani. È una sconfitta epocale. Il «New Yorker» si domanda se il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan segni la «fine dell’impero americano», contribuendo alla generale preoccupazione sul declino della democrazia liberale.

Secondo «The economist», poco più dell’8% della popolazione vive al momento in uno stato democratico pienamente funzionante e questo numero probabilmente si ridurrà. Per citare Antonio Gramsci, il filosofo marxista morto nel 1937 in una prigione fascista: «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

Nell’attuale interregno si parla sempre più diffusamente di politica «post-liberale». Nelle fazioni di destra ciò si manifesta in forze autoritarie che ricordano, in modi sottili e insidiosi, versioni «annacquate» di quanto è accaduto in Germania e in Italia negli anni Trenta, anche in seno a democrazie liberali. La sinistra, nonostante la vittoria dei Democratici nelle elezioni americane del 2020, non riesce a trovare alternative valide.

«Al giorno d’oggi il fascismo non ha più bisogno di un Hitler, di un “Mein Kampf” o di un corpo regolare di stormtroopers, dice il commentatore britannico Paul Mason. Ora ci sono Facebook, i canali di gaming Steam e Discord, il servizio di messaggistica Telegram e gli algoritmi, a portare contenuti di estrema destra sugli schermi di persone che secondo Google potranno apprezzarli».

Al centro della questione è un fatto spiacevole: solo una piccola minoranza della popolazione mondiale condivide le convinzioni liberali che sono alla base del mondo dell’arte attuale. Eppure, il sistema dell’arte occidentale continua a bollare come «sbagliata» qualunque cosa non si attenga al pensiero ritenuto ortodosso. La scultura pubblica resta il principale terreno di scontro per la guerra culturale portata avanti dall’arte. Una statua del XIX secolo di un trafficante di schiavi può essere gettata nella baia di Bristol, però l’Occidente condanna l’abominevole distruzione di antichi Buddha in pietra da parte dei talebani.

«Questa idea di artefatti di grande valore estetico conservati in musei, gallerie o case private è un fenomeno squisitamente occidentale che è stato esportato nel resto del mondo, nella convinzione utopica di un mondo dell’arte globalizzato che tuttavia è ancora profondamente definito da criteri occidentali», sostiene Jacob Wamberg, professore all’Università di Aarhus in Danimarca e co-editore della raccolta di saggi «Totalitarian Art and Modernity» («Arte totalitaria e modernità»), edita nel 2010.

Il libro mette in discussione le nozioni per cui l’arte totalitaria è un’arte «falsa», che esiste unicamente in regimi politici deprecabili. Per esempio, la realistica statua populista della principessa Diana realizzata da Ian Rank-Broadley, che starebbe ugualmente bene in un centro commerciale come in una delle grandi esposizioni d’arte tedesca organizzate da Hitler, è stata liquidata dal critico d’arte Jonathan Jones nel «Guardian» come un «ammasso di idiozie senza spirito né carattere».
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Jones aveva anche demolito «Verity», la statua del 2012 di Damien Hirst a Ilfracombe, nel Devon, poiché quella figura che brandisce una spada sembrava l’invenzione di un folle dittatore, suggerendo confronti con la colossale statua sovietica «Il richiamo della madrepatria», in memoria dei caduti nella battaglia di Stalingrado. «Verity» presenta anche inquietanti somiglianze con il «Genio della vittoria», monumentale bronzo del 1940, anch’esso spada in mano, dello scultore nazista Adolf Wamper.

Albert Speer, l’architetto di Hitler, ricordava nei suoi diari che il führer era «ossessionato dal gigantismo» e che c’era una «curiosa uniformità» in tutte le sue idee architettoniche. Il gigantismo autoritario certamente caratterizza il design del nuovo parlamento di Delhi, ideato dal primo ministro Narendra Modi, così come quello del palazzo di Vladimir Putin, affacciato sul mar Nero, al tempo stesso kitsch e classico, al centro di un coraggioso documentario realizzato dal leader dell’opposizione Alexei Navalny.

Ma non vi è anche una ripetitività totalitaria nei nuovissimi e super esclusivi grattacieli di Manhattan o nelle decine di edifici residenziali di lusso che stanno modificando il profilo di Londra? «Non sono totalitari, a meno che non si guardi al capitalismo mondiale come totalitario. Non sono neanche brutti», dice Stephen Bailey, ex direttore del museo del design di Londra, a proposito degli appartamenti di lusso che stanno spuntando ovunque nel mondo, tutti uguali. «Sono piuttosto banali. Sono l’espressione architettonica di un conto profitti e perdite», aggiunge. Ma non era proprio la banalità, la normalizzazione dell’orribile, uno degli elementi che secondo Hannah Arendt caratterizzava il nazifascismo?

Benjamin Martin, professore associato nel dipartimento di storia della scienza e delle idee presso l’Università di Uppsala in Svezia, definisce il fascismo come una precisa ideologia politica adottata da nazioni repressive: un termine che non dovrebbe essere applicato con leggerezza alle tendenze contemporanee. «Nel movimento fascista del XX secolo, il capitalismo aveva bisogno che i fascisti prendessero il controllo statale, non da ultimo per sopprimere le organizzazioni sindacali», spiega Martin. «Google non ha bisogno di un dittatore. Oggi il capitalismo ottiene ciò che gli serve dal sistema politico e in futuro lo otterrà dal sistema culturale». E quel sistema, perlomeno per quanto riguarda l’arte contemporanea, offre il tipo di profitto necessario al capitalismo, nonostante, o forse a causa della pandemia.

«The Currency», il progetto di Damien Hirst di 10mila Nft, ha raccolto milioni di dollari per l’artista e il suo finanziatore. Probabilmente nessuno vorrebbe essere il proprietario di una fiera internazionale d’arte al momento, ma in generale le vendite in asta sono tornate a livelli pre-Covid e i prezzi sono saliti per opere di artisti molto richiesti, risultando in enormi profitti per i venditori che ne avevano precocemente acquistato le opere dalle gallerie. L’esposizione «Mixing It Up: Painting Today», alla Hayward Gallery di Londra, includeva dipinti di 31 artisti di ogni formazione, nazionalità e generazione che vivono in Gran Bretagna, tra i quali risultano alcuni nomi forti delle aste.

Potrebbe sembrare un’antitesi rispetto a una grande esposizione di arte tedesca degli anni Quaranta o alla mostra di «arte politica», sfacciatamente di destra, che proprio in questo periodo sta sollevando molto dissenso al Centro d’arte contemporanea Castello Ujazdowski a Varsavia. Eppure, tutte queste esposizioni rappresentano sistemi e momenti culturali ben precisi.

Il testo introduttivo alla mostra della Hayward Gallery, curata dal direttore della galleria Ralph Rugoff, dice che le opere selezionate sono «concettualmente avventurose», poiché decostruiscono i «modi di vedere e pensare» che abbiamo interiorizzato. La sovversione è un cliché tipico del sistema dell’arte liberale che risale a Duchamp e persino a prima. Lo scossone dell’arte d’avanguardia in qualche modo ci rende più liberi.

Tuttavia, la nozione di «libertà», per non parlare di libertà artistica, è diventata più problematica negli stati democratici dal momento che il capitalismo e la tecnologia acquistano sempre più potere sulle nostre vite e le guerre culturali ci rendono più intolleranti, a prescindere da che parte stiamo. Queste sono le forze che oggi sovvertono e dettano legge.

Provate a cercare su Google «arte post-liberale»: al momento non esiste. Forse è giunto il momento che l’8% apra gli occhi e veda questa specie di scossone creativo, indipendentemente da cosa ne risulterà.

«Genius of Victory» (1940) dello scultore nazista Adolf Wemper. Foto Süddeutsche Zeitung/Alamy Foto

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Scott Reyburn, 22 luglio 2022 | © Riproduzione riservata

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