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Roberto Sebastián Matta, «Testa (dalla serie “Il sorriso verticale della Gioconda”», 1978

Courtesy of Matta Archives. © Gaia Schiavinotto per Matta Archives

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Roberto Sebastián Matta, «Testa (dalla serie “Il sorriso verticale della Gioconda”», 1978

Courtesy of Matta Archives. © Gaia Schiavinotto per Matta Archives

L’arte etrusca rinasce nel Novecento

Alla Fondazione Luigi Rovati di Milano l’influsso esercitato dalla cultura etrusca sull’arte italiana del secolo passato: Campigli vi trovò «un mondo di serenità», mentre Arturo Martini e Marino Marini continuarono «da dove loro si sono fermati»

Sono a Milano e sto per raggiungere la sede della Fondazione Luigi Rovati, al numero 52 di corso Venezia, dov’è allestita la mostra «Etruschi del Novecento», e lo sguardo cade su una lapide, le cui lettere andrebbero rubricate di nuovo, affissa sul palazzo accanto a quello che accoglie l’esposizione. 

Vi è trascritto un passo che rinvia al capitolo XI dei Promessi Sposi: «Qui c’era una colonna, con sopra una croce, detta di San Dionigi». Alessandro Manzoni vi fa passare davanti Renzo Tramaglino quando ha raggiunto Milano per trovare rifugio nel convento dei Cappuccini presso Porta Orientale, oggi Porta Venezia. Quel richiamo inaspettato ha condizionato la mia visita e spinto a leggerla in un quadro unitario: letteratura, archeologia, arte. 

Di conseguenza, appena entrato nella sede, non seguendo il percorso consigliato, ho raggiunto la sala dove sono esposte le opere di Massimo Campigli, pittore, giornalista (essendo stato il corrispondente da Parigi per il «Corriere della Sera») e scrittore di valore: è sufficiente leggere il libro autobiografico Nuovi Scrupoli per rendersene conto. 

Non seguire il percorso suggerito dai curatori di una mostra, o di un museo non è una scelta consigliabile: dietro vi è uno studio, un progetto che si è scelto di seguire e proporre, ma capita talvolta di farlo.

Nella stanza sono esposte alcune sue tele e vi si scorgono rinvii consapevoli a forme dell’artigianato artistico etrusco e, in particolare, a una produzione tipica dell’area di Chiusi: i canopi, vasi destinati ad accogliere e conservare i resti dei defunti cremati; una sorta di urne cinerarie, ma che, nel loro aspetto, restituiscono simbolicamente la figura umana con un’enfasi notevole riservata alla testa. 

In Nuovi scrupoli, Campigli scrive in merito all’arte etrusca: «Trovai lì un mondo di serenità, il cielo blu, le piante arse, le facce di terracotta, un busto sorridente di cui m’innamorai. Ritrovai quel sorriso un anno dopo in una donna e fu un grande amore». 

Gio Ponti e Libero Andreotti, Manifattura Richard Ginor, Doccia, «Cista La passeggiata archeologica», 1926-27, Milano, Museo Poldi Pezzoli. © Arrigo Coppitz. Courtesy of Museo Poldi Pezzoli

Arturo Martini, «Testa di Dicomana», 1921. Mart, collezione privata

Sempre al piano nobile si trova la sala, in cui, attraverso l’esposizione di una serie di manifesti e libri, si racconta la fortuna degli Etruschi durante il Novecento: manuali si alternano a libri di viaggio, a romanzi e a riviste. Devo segnalare che alcuni di quei manuali furono le letture scelte da diversi scrittori del Novecento, interessati al mondo etrusco, per documentarsi: si possono ricordare Vincenzo Cardarelli e David Herbert Lawrence, per limitarsi a due soli nomi. Sullo stesso piano si può raggiungere lo spazio dove viene documentato il «viaggio fotografico» di Paolo Gioli a Volterra nell’autunno del 1984. Nella stessa stanza vi è un’opera in cui Alighiero Boetti ha ridisegnato le copertine d’importanti testate nazionali e internazionali relative al 1985: apre la sequenza con una copertina del settimanale «Epoca» dedicata al Progetto Etruschi, un’iniziativa che, in quell’anno, aveva interessato diverse città della Toscana e si era estesa all’Umbria, al Lazio e alla Lombardia. 

Nel suggestivo piano ipogeo della Fondazione Rovati si trova l’inizio effettivo del percorso della mostra curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci e Alessandra Tiddia. È aperto dalla scultura in bronzo: il «Leone urlante» di Mirko Basaldella. Qui il motivo ispiratore si può trovare nella celebre «Chimera» scoperta ad Arezzo nel novembre del 1553 e trasferita prontamente a Firenze per volontà di Cosimo I dei Medici: uno dei bronzi più noti che siano pervenuti dall’Antichità. La stessa fonte d’ispirazione del «Leone di Monterosso (Chimera)» realizzato da Arturo Martini negli anni 1933-35 e pure esposto in mostra. 

Dello stesso scultore è visibile anche una bella testa in terracotta («Testa di Dicomana», 1921), che rinvia alla coroplastica etrusca, un riferimento anche per Dino Basaldella di cui è presente il «Ritratto di Afro» (1930-31). Un aspetto dell’artigianato artistico etrusco che sembra avere interessato pure l’artista cileno Roberto Sebastián Matta. La ceramica ha saputo attirare ugualmente l’attenzione durante il Novecento e si possono ricordare, almeno, i vasi ideati da Gio Ponti per la Richard-Ginori e il «Gallo» (1955) di Fausto Melotti in ceramica smaltata e policroma. 

Un’altra opera iconica dell’arte etrusca, il «Sarcofago degli Sposi», è stato guardato con attenzione e, lungo il percorso espositivo, trovano spazio gli «Amanti antichi» (1965) di Leoncillo Leonardi e l’«Odalisca» (1930) ancora di Arturo Martini, anche se qui la figura femminile è raffigurata da sola. D’altronde fu lui a dichiarare a Gino Scarpa: «Io sono il vero etrusco»; una rivendicazione avanzata anche da Marino Marini, pure presente in mostra, che osservò in un’intervista raccolta dallo scultore svedese Staffan Nihlén: «In Martini e in me rinasce l’arte etrusca. Noi continuiamo da dove loro si sono fermati».

Fausto Melotti, «Bambini», 1955. Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

Coperchio di urna cineraria con coppia di sposi, 530-520 a.C. Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Courtesy of Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia

Giuseppe M. Della Fina, 29 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

L’arte etrusca rinasce nel Novecento | Giuseppe M. Della Fina

L’arte etrusca rinasce nel Novecento | Giuseppe M. Della Fina