«Io non sono un Architetto sono un Drago» (2006) di Alessandro Mendini

Archivio Alessandro Mendini

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«Io non sono un Architetto sono un Drago» (2006) di Alessandro Mendini

Archivio Alessandro Mendini

La retrospettiva di un drago, l’inquieto Alessandro Mendini

In Triennale Milano una grande mostra con oltre 400 lavori dell’architetto, designer, artista, critico e direttore di riviste, curata da Fulvio Irace

«Io sono un drago», diceva di sé Alessandro Mendini (1931-2019), architetto, designer, artista, critico e direttore di riviste come «Casabella» e «Domus». E così si ritraeva nei suoi disegni in cui, come un leggendario ircocervo, aveva «testa da designer», «mani da artigiano», «petto da manager», «pancia da prete», «corpo da architetto», «gambe da grafico», «coda da poeta». E «Io sono un drago», seguito da «La vera storia di Alessandro Mendini», è anche il titolo della grande retrospettiva (oltre 400 i lavori esposti, catalogo Electa) pensata espressamente per questi spazi, che Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain (in collaborazione con Archivio Mendini) presentano a Milano dal 13 aprile al 13 ottobre, nell’ambito del loro fortunato sodalizio. A curarla è Fulvio Irace (cui si deve tra l’altro il libro fondamentale Codice Mendini, 2016), ad allestirla è Pierre Charpin, mentre a Philippe Starck si deve l’inedita installazione nell’Impluvium e a Francesca Molteni il video che ne documenta, tra l’altro, le performance degli anni Settanta e Ottanta.

Mendini era di casa alla Triennale, dove presentò numerosi progetti e mostre, e alla Fondation Cartier, che espone numerosi pezzi della sua collezione, dalla gigantesca «Poltrona di Proust» e la «Petite Cathédrale», entrambe del 2002, alla «Colonna di Cartier» (2009), in oro e pietre preziose, ai due grandiosi «Cavalieri di Dürer» (2011 e 2019), e altro ancora, ha ospitato nel 2002 la sua prima rassegna in Francia, «Fragilisme», cui sono seguite altre collaborazioni.

Sei i nuclei in cui si articola il percorso: Identikit (gli autoritratti); La sindrome di Gulliver (i suoi oggetti miniaturizzati o oversize, come i servizi da tavola di Alessi trasformati in mini grattacieli o la «Proust» ingigantita); Architetture (tra le altre, il Groninger Museum, il Mediazentrum Madsack di Hannover, tre stazioni della Metropolitana di Napoli e i progetti in Corea del Sud); Fragilismi, con il manifesto del «Fragilisme» (la fragilità della terra a causa delle guerre e della violenza), disegnato per Fondation Cartier; Radical Melancholy, un omaggio al radical design, di cui fu uno dei massimi teorici, e Stanze, dove ci s’imbatte in tre suoi ambienti immersivi. Ne parliamo con il curatore.

«Petite Cathédrale» (1996-2002), di Alessandro Mendini. Collezione Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi. Foto: Archivio Alessandro Mendini

Professor Irace, Mendini diceva «oggi non esiste un linguaggio dominante. Questo si riflette nel mio modo di lavorare». Per questo si identificava con una figura ibrida come il drago?
Alessandro Mendini era un raccoglitore di segni. Come un rabdomante, nei suoi viaggi raccoglieva «segni». O affidava a noi giovani collaboratori delle vaste ricerche iconografiche su oggetti, mobili, quadri: tutte immagini di cui poi si nutriva. Non era affezionato all’autorialità. Del resto, appena laureato, stava nello Studio Nizzoli Associati, che era organizzato come un gruppo progettante: una pratica che ha poi perseguito e affinato nel tempo.   

Non a caso amava l’arte africana e la nostra arte popolare, di cui non si conoscono gli autori.
Non solo: realizzò il progetto del Groninger Museum come una sorta di «cadavre exquis» surrealista, chiamando a collaborare numerosi autori. E lo stesso fece con le stazioni della Metropolitana di Napoli o con Alessi, per il progetto «100% Make Up» (1992, Ndr): cento vasi di porcellana in tiratura limitata da lui ideati ma decorati dai cento artisti che chiamò con sé. Amava infatti inglobare le differenze e ne fece il suo metodo di lavoro, sempre aperto a tutto ciò che gli sembrava lontano, diverso, contrastante. Nel 1970, diventato direttore di «Casabella», ne fece per sei anni l’organo dell’architettura radicale, cioè dei «diversi» dell’architettura internazionale (memorabile la copertina del 1972 con il gorilla), mentre scriveva editoriali sulla sua crisi esistenziale, perché, ripeteva, «bisogna smetterla di lasciare tracce sul mondo: il mondo è distrutto dalle nostre tracce». Ed erano gli anni Settanta.

Un tema che riprenderà nel 2002 nel manifesto «Fragilisme».
In quel manifesto Mendini riflette sulla fragilità della terra, condannando l’architettura violenta e la proliferazione delle merci. Il manifesto, non scritto ma disegnato, è in mostra (Mendini era solito disegnare mappe concettuali molto belle per le mostre, i libri, le interviste): la propensione per il disegno l’ha accompagnato fin dall’infanzia, quando faceva un giornalino a fumetti per i familiari e diceva di voler diventare Walt Disney. Ha disegnato per tutta la vita e i suoi ultimi disegni sono quasi tribali, primitivi, di grandissima espressività.

Di Mendini i media hanno diffuso l’immagine di un poeta svagato e di una figura glamour, ma alcune sue dichiarazioni («il mio lavoro si colloca sulle sabbie mobili»; «Addio progetto vivo: il clima del futuro è obitoriale») sembrano contraddire questo aspetto. Lei che lo ha conosciuto da vicino, che cosa può dire? 
In realtà era un personaggio inquieto. E ciò che desideravo far emergere dalla mostra era proprio questo suo aspetto drammatico, saturnino, perfino apparentemente cinico: tra gli altri suoi lavori ho voluto esporre la «Valigia per ultimo viaggio», pesantissima, di marmo. Mendini viveva come un eremita nella casa disadorna sopra lo studio, in un’ex casa di ringhiera di Milano, e ogni domenica mattina disegnava un nuovo drago. E in occasione della mostra uscirà, per le edizioni di Triennale Milano, il piccolo album «Draghi, mostri e cavalieri», con quelle sue figure fantastiche che sono come allucinazioni: grottesche ma bonarie.

«Valigia per ultimo viaggio» (1996-2002), di Alessandro Mendini. Collezione Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi. Foto: Archivio Alessandro Mendini

Ada Masoero, 11 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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