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La nostra ignoranza dell’arte islamica è ottocentesca

Contrariamente all’opinione diffusa non è né iconoclasta, né aniconica, né ornamentale, né immutata nei secoli, né esclusivamente religiosa

Mattia Guidetti

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Nel numero dello scorso 7 aprile di «Sette», il supplemento del «Corriere della Sera», è apparso un articolo di Francesco Battistini intitolato «Lo scontro di civiltà uccide anche la bellezza». Richiamato in copertina dalla riproduzione di «Persepoli», un’opera di Luca Pignatelli, il pezzo presenta una serie di casi in cui opere d’arte sono state al centro di polemiche e censure da collegarsi al presunto scontro in atto tra religione e laicismo e, più nello specifico, tra il cosiddetto Islam e il cosiddetto mondo occidentale.

L’opera di Pignatelli, una testa di una scultura greca impressa su un tappeto iraniano, dopo che in un primo momento era stata accettata dal prestigioso Tefaf di Maastricht, non è stata infine selezionata dai curatori (cfr. n. 374, apr. ’17, p. 68 e 71). Se le ragioni dell’esclusione dell’opera rimangono imperscrutabili (e sono forse legate alla concomitante campagna elettorale olandese in cui si è dibattuto aspramente il rapporto con le comunità musulmane), il discorso che ruota intorno all’opera di Pignatelli merita di essere approfondito.

L’artista, intervistato circa la genesi dell’opera, aveva dichiarato che voleva «capire se la figura occidentale potesse coesistere con l’iconoclastia orientale, cioè islamica», frase pubblicata nella rubrica «Preghiera» di Camillo Langone ne «Il Foglio» del 25 settembre 2016. La spiegazione data dall’autore, e il fatto stesso che il suo contenuto non sia stato messo in discussione dal giornalista, rivelano l’ordinario stato di conoscenza dell’arte islamica e, più in generale, del cosiddetto mondo musulmano. In realtà l’arte islamica non è iconoclasta e nemmeno aniconica (se di assenza di immagini figurative si intendeva parlare), ma risplende di immagini figurative, incluse, ebbene sì, raffigurazioni del profeta Muhammad. A essere per gran parte aniconica è l’arte dei luoghi di culto, nei quali si preferisce, prendendo alla lettera il richiamo biblico, evitare la raffigurazione di esseri dotati di spirito (in pratica uomini e animali) e insistere invece sulla parola di Dio e su motivi geometrici e vegetali. Fuori dalle moschee, invece, migliaia di oggetti recanti immagini di vario genere dimostrano come quella che chiamiamo arte islamica abbia incluso la figura come soggetto della produzione artistica. Questo punto dovrebbe essere scontato: la benemerita organizzazione di mostre di arte islamica da parte di Giovanni Curatola (Venezia 1993, Milano 2010, Roma 2015, cfr. n. 355, lug.-ago. ’15, pp. 29-30) aveva tra gli obiettivi anche quello di illustrare il regime visivo dell’arte islamica e le modalità con cui in essa viene trattata la figura umana (incluse le differenze con la figura nell’arte europea).

La frase sopraccitata rivela però altri aspetti che vanno alla radice della diffusa incomprensione della natura dell’arte islamica, che ne spiegano le cause e che potremmo definire di ordine epistemologico. Il seme della percezione dell’arte islamica come arte non figurativa va ricercato nell’Ottocento. In quel periodo l’arte islamica fu scoperta dagli europei e apprezzata (e quindi collezionata, esposta nei musei e anche preservata) al fine di rinvigorire il design delle arti industriali. Opere voluminose raccolsero a partire da inizio Ottocento motivi decorativi e ornamentali tratti da edifici e oggetti prodotti dalle società musulmane, motivi apprezzati per freschezza e vigore, specie quando comparati ai ripetitivi e decadenti regimi ornamentali diffusi in Europa a quel tempo. L’arte islamica, come spiegato brillantemente da studiosi come Rémi Labrusse e Nevra Necipoğlu, venne dunque strumentalmente piegata ai bisogni industriali del tempo e selezionata in base al carattere ornamentale e decorativo di cui si necessitava. Di qui, ad esempio, l’enorme fortuna del concetto di arabesco, spesso descritto come forma simbolo o archetipica dell’arte islamica, causando pericolose generalizzazioni. Nonostante decine di esibizioni museali e centinaia di pubblicazioni nell’arco del Novecento abbiano rettificato l’interpretazione dell’arte islamica come arte aniconica, da quel seme ottocentesco è nata una pianta robusta e l’ignoranza dell’arte islamica, o meglio una sua visione parziale, persiste. È proprio questo meccanismo radicato nella creazione ottocentesca del sapere alla base della frase di Pignatelli sulla genesi della propria opera. 

C’è poi un’ultima questione anch’essa facilmente risolvibile ma che si riaffaccia spesso nei discorsi sull’Islam. Si tratta dell’essenzialismo, cioè dell’approccio destoricizzante con il quale si tratta il presunto Homo Islamicus. Sul versante artistico di questo aspetto ha scritto pagine importantissime la studiosa Necipoğlu. Lo stesso carattere ornamentale dell’arte islamica (sostiene la studiosa turca che insegna a Harvard e che spesso visita l’Italia in quanto membro del Centro Internazionale di Studi di Archittettura Andrea Palladio) ha avuto radicali variazioni formali, terminologiche e iconografiche. Non solo esistono differenze tra gli Abbasidi della Baghdad del X secolo e gli Ottomani della Istanbul del XVI secolo, ma pure tra Ottomani e Persiani nel XVII secolo e, all’interno dello stesso mondo ottomano, tra il regime ornamentale del XVI e quello del XVIII secolo. Invece, esattamente come si ritiene che il presunto Homo Islamicus di oggi in fondo non sia diverso dal Homo Islamicus dell’Islam classico del IX secolo, ugualmente si compatta a monolite l’arte islamica, considerata come «orientale» e «ornamentale» e come contraddistinta dall’assenza non solo della salvifica figura umana, ma anche di una serie di caratteri vitali (sviluppo, progresso e cambiamento) che, invece, caratterizzerebbero (ed eleverebbero) l’arte europea. 

Ma c’è di più: esattamente come (erroneamente) si pensa che l’Homo Islamicus abbia come unico carattere identitario il credo religioso, analogamente l’arte islamica viene schiacciata sul suo aspetto religioso, negandole un ampio spettro di altre declinazioni. Tale approccio, oltre a essere sbagliato dal punto di vista metodologico (come se io venissi percepito in un’altra cultura solamente come prodotto del pensiero teologico scolastico), fa paradossalmente il gioco della nuova ondata di pensiero islamista che viene caratterizzando il mondo musulmano degli ultimi trent’anni. L’ideologia dell’Isis vuole schiacciare le diverse appartenenze dell’identità dell’uomo di cultura musulmana (su queste appartenenze ha scritto belle pagine il libanese Maalouf) sull’appartenenza dottrinale (costruita a partire da un’interpretazione contemporanea delle fonti di inizio Islam), negando tutte le altre. Questa molteplicità identitaria, che caratterizza ogni individuo e permette a tutti noi di muoverci in diverse sfere e su diversi livelli e che contraddistingue di conseguenza anche la produzione artistica, è messa in pericolo dalla resistenza generale, particolarmente pervicace nei mezzi d’informazione, a illustrare le sfumature e ad articolare le differenze sia all’interno delle culture sia nel rapporto tra esse.

Mattia Guidetti, 11 luglio 2016 | © Riproduzione riservata

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