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Marta Ravasi, Natura Morta Verticale, 2025. Olio su tela, 31x26cm. Courtesy l'artista, Acappella e Galerie Elsa Meunier

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Marta Ravasi, Natura Morta Verticale, 2025. Olio su tela, 31x26cm. Courtesy l'artista, Acappella e Galerie Elsa Meunier

«La mia pittura non ha bisogno di alzare la voce». Dialogo con Marta Ravasi

Abbiamo incontrato la pittrice a Parigi, in occasione di Fresca, la sua prima mostra personale in Francia, da poco conclusa alla Galerie Elsa Meunier

Marta Ravasi (Merate, 1987) è una pittrice italiana. Lavora da anni in quella che potremmo definire una direzione radicalmente ostinata e contraria. I suoi soggetti sono quotidiani, essenziali, quasi pretestuosi. La sua pittura si distingue per una pratica appartata, che rinuncia a stupire, concentrata su formati minimi e soggetti elementari, dipinti su cotone, telai costruiti a mano, presentati senza cornici né finiture. Un’attenzione costante alla materia, al ritmo, alla variazione minima, che fa della ripetizione non tanto un esercizio di stile, quanto un metodo di ascolto. Lontana da ogni retorica figurativa e da ogni virtuosismo tecnico, Ravasi costruisce immagini che si dissolvono nel momento stesso in cui si formano. Restituisce, attraverso l’indeterminato, l’epifania del processo e rende lo spettatore partecipe al fare pittura. Marta Ravasi vive e lavora a Milano. L’abbiamo incontrata a Parigi, in occasione di Fresca, la sua prima mostra personale in Francia, da poco conclusa alla Galerie Elsa Meunier, in attesa dell’apertura della sua prossima collettiva Cold Enough For Snow, in corso fino al 30 agosto presso Workplace, a Londra. Intanto, in Italia, il suo lavoro è incluso nella mostra Il verso della lumaca, fino al 20 settembre da Galleria 1/9 a Roma.

Vivi e lavori a Milano, ed è qui che hai iniziato a fare pittura, in un momento in cui questo linguaggio era quasi assente dal dibattito accademico italiano. Le pratiche concettuali e performative sembravano invece egemoniche. Quanto ha contato, e cosa ha significato, inizialmente, l'assenza di contesto?

Mi sono formata a Brera, e in quegli anni, effettivamente, la pittura sembrava non esserci.
Quella fase iniziale per me dormiente - anche a causa dell’assenza di un contesto che sostenesse il medium - mi ha portata a chiudermi in una dimensione intima, di silenzio, dalla quale è poi emersa una forza centrifuga che mi ha spinta verso l’esterno.
Prima in Belgio, per un Erasmus alla Hogeschool Sint Lukas di Bruxelles, dove ho studiato con l’artista Philippe Van Snick. Poi a Londra, dove sono rimasta per diversi anni e ho proseguito i miei studi alla University of the Arts London.

Dalla formazione sembra essere emersa una concezione della pittura non tanto come rappresentazione quanto come materia da plasmare. Quali altre esperienze hanno definito il tuo linguaggio attuale?

Ho vissuto per cinque anni in Svizzera, dove lavoravo per un collezionista inglese. Era un contesto internazionale, ma anche isolato, proprio per questo perfetto per iniziare a lavorare seriamente. È stata un’esperienza particolarmente formativa: mi sento fortunata ad aver avuto quei capolavori a disposizione del mio sguardo. Le mie prime opere, le più faticose, sono nate lì e sono state esposte in occasione della mia prima personale da Fanta, a Milano, nel 2017.

La mostra da Fanta del 2017 segnava il tuo esordio espositivo con una proposta già molto matura: nove opere, nessun testo critico. Una scelta coraggiosa per un debutto. Come ricordi quella decisione, di far parlare unicamente la pittura?

La mostra da Fanta è stata per me molto importante. Era la mia prima personale, costruita con grande cura: una composizione poetica strutturata su riferimenti formali e ritmo dell’allestimento. Non c’era nulla di decorativo, nulla di superfluo. A ripensarci, è ancora una mostra a cui sono molto legata: a distanza di anni, mi sembra profondamente onesta.

In quel momento Fanta si distingueva a Milano per una proposta espositiva diversa: non era affatto scontato, in Italia, poter avere quello spazio. E trovo coerente la direzione che la galleria ha preso negli anni, orientandosi verso una linea sempre più precisa e concettuale.

C’è un aspetto della tua pratica particolarmente interessante, anche in relazione al mercato: i tuoi lavori sono spesso molto piccoli, silenziosi, appartati. Hai mai sentito la pressione a cambiare scala?

Sì, in realtà me lo sento dire spesso: che dovrei lavorare su formati più grandi.
Ma per me il piccolo formato è un modo di stare dentro il quadro in maniera diversa: con attenzione e concentrazione. Non è una comodità, né una provocazione.
Un quadro piccolo è, in un certo senso, più esigente: ti obbliga a starci vicino, a prenderti del tempo, a navigarlo con la sola misura dello sguardo.
Richiede un diverso tipo di attenzione, e per questo sono felice di potermi confrontare con un gallerista attento a questo approccio, come Corrado Folinea di Acappella, a Napoli, il cui programma accoglie pratiche e poetiche molto diverse, ma sempre coerenti e ben riconoscibili.

Eppure, osservando l'evoluzione del tuo lavoro, si può notare come le dimensioni si stiano via via riducendo nel tempo. Non c'è provocazione, dicevi, ma questa progressiva sottrazione può sembrare quasi un elemento di resistenza.

Quando ho iniziato a dipingere i Fruttini era anche per questo: sono più piccoli del solito, semplici nella scelta dei soggetti, ma articolati per quanto riguarda la composizione. E sì, volevo sottrarmi a quella logica di scala. Volevo che non si potesse “entrare” nel quadro come in uno spazio, ma solo avvicinarsi e percepirlo per quello che è, una superficie concentrata.

Davanti alle tue opere nasce spontaneo il desiderio di toccarle, staccarle dal muro, quasi di poggiarle sul palmo della propria mano. C'è una fisicità molto particolare che le caratterizza. Quanto è centrale nella tua ricerca l'aspetto materico? La consapevolezza che un dipinto è, prima di tutto, un oggetto?

L’aspetto materico per me ha acquisito sempre maggiore importanza, sia per quanto riguarda la materia del colore, direzionata con controllo e intenzione, sia nella scelta dei supporti, dalla costruzione del telaio alla preparazione della tela. Non rifinisco i bordi, non cerco di mascherare le lavorazioni; anzi, mi interessa che si vedano le tracce dello studio: le macchie, i segni di colore, fanno parte del lavoro.

Concordo con quello che dici: un quadro è un oggetto che ti impone una distanza specifica e che ha una presenza concreta nello spazio. Nella documentazione, ad esempio, voglio che sia chiaro che le opere sono oggetti con una propria tridimensionalità e ombre, non immagini piatte. Devono mostrare quello che sono, in tutta la loro fisicità.

La pittura è qualcosa che si guarda da vicino, con il corpo; non è qualcosa che si consuma velocemente con lo sguardo, anche se questo pensiero sembra contraddire quanto dicevo all’inizio su questo argomento.

Questo concetto emerge anche nelle modalità della tua pratica.
La tua pittura è costruita nell’intervallo tra insistenza e mutazione: i soggetti sono ricorrenti – frutti, scorze, torsoli – talvolta sembrano provenire dalla stessa immagine, eppure non sono mai gli stessi.

Anche la tavolozza, limitata a una gamma terrosa, polverosa, non produce mai fissità, piuttosto sembra esplorare una vastità infinita di variazioni sul tema.

Cosa ti permette, e cosa ti impone, la ripetizione?

Insistenza e mutazione sono consequenziali: la ripetizione, infatti - che nella mia pratica si manifesta come dicevi nella scelta dei soggetti, nella definizione delle cromie, ma anche nella struttura stessa del processo creativo - non è mai fine a sé stessa, ma piuttosto un meccanismo che permette lo sviluppo di cambiamenti e l’evolversi di un’idea sottostante, che si manifesta e prende corpo proprio nel fare. Come un esercizio che si compie all’interno di margini precisi e che, proprio grazie a questi confini, permette di trovare vie nuove.

Metodo, disciplina, o la ricerca di qualcos’altro, quasi come in un esercizio spirituale?

Non so se la chiamerei spirituale, ma c’è sicuramente una componente mentale, ritmica, di attenzione. Come nei gesti ripetuti, che diventano un modo per ascoltare quello che sta accadendo sulla tela, più che per controllarlo.
E infatti non faccio mai disegni preparatori: le cose succedono mentre dipingo, e spesso non so dove sto andando finché non ci arrivo.

Puoi descriverci come si svolge una giornata di lavoro in studio? Come nascono, e come si sviluppano, le tue opere?

Preparo sempre più tele insieme e inizio a lavorare su tutte. Non ho un progetto preciso: parto da alcune immagini di riferimento che tengo vicine, ma che spesso non uso direttamente. Durante la sessione, una o due tele iniziano a prevalere, a prendere una direzione. Ma non so mai in anticipo quale sarà quella che porterò fino in fondo, e questo non accade prima di molte sedute.

Alla fine della giornata è raro che qualcosa rimanga sulla tela, con gesti veloci mischio tutto direttamente sulla tela, l’avanzo di colore sui pennelli e quello nei contenitori. È da qui che si sviluppano i colori terrosi e complessi. Diventa una base nuova e il giorno dopo riparto da lì. Quindi sì, è un processo fatto di perdita, di stratificazione, di tentativi che vengono cancellati. Non accumulo, anzi: cerco ogni volta di perdere qualcosa, per trovare qualcos’altro. E questo vale anche per i quadri finiti: non sono mai “risolti”, mai realmente chiusi.

Nelle opere più recenti, esposte a Parigi da Elsa Meunier, la relazione tra soggetto e supporto sembra particolarmente fluida: i meloni bianchi quasi scompaiono nella pasta pittorica, le pesche emergono come suggestioni. Senti stia cambiando qualcosa?

Il soggetto c’è, ma come dicevo, per me non è mai il punto di partenza: è un punto d’appoggio per lo sguardo, non qualcosa che chiude il senso del quadro.

Non voglio raccontare qualcosa, ma dare spazio a un momento di osservazione delle superfici, dei volumi, delle diverse qualità della materia pittorica.

La figura è quindi più un punto di accesso che un fine.

La figurazione è uno dei tanti modi in cui la pittura può mostrarsi: la forma può anche rimanere sospesa. Lavoro molto sulla relazione tra figura e sfondo, mi interessa quando i due piani si confondono, quando lo sfondo smette di essere tale (vorrei trovare un nome diverso per definirlo) e diventa attivo.

In Natura Morta Verticale, ad esempio, lo sfondo - l’area che circonda il soggetto in due fasce distinte, sopra e sotto - è più spesso, più punteggiato rispetto alla frutta, che invece risulta più leggera ed evanescente. È stato un risultato inaspettato, che mi ha sorpresa. In quello stesso quadro, il soggetto si sviluppa orizzontalmente, ma il formato è verticale: una scelta che accentua ulteriormente il volume più denso di quello spazio apparentemente “vuoto”.

Nelle tue risposte emerge l'idea di non voler mai "chiudere" definitivamente: né la ricerca, né il soggetto, né l'opera stessa. Quando, invece, decidi che un quadro è concluso?

La pittura, per me, lascia sempre una questione aperta, che va risolta nell’opera successiva. In questo senso è come se non affermasse mai qualcosa e, se lo fa, è solo per un breve periodo.
Mi piace pensare al quadro come a uno spazio sospeso, in cui le cose si muovono ancora. A chi lo guarda, spero rimanga la gioia intensa che mi capita brevemente di provare, e che subito si esaurisce.

 

MARTA RAVASI - Foto Pasquale Abbattista

Marta Ravasi, Melone (rosso), 2025. Olio su tela, 20x25cm. Courtesy l'artista, Acappella e Galerie Elsa Meunier

Marta Ravasi, Fruttini, 2025. Olio su tela, 12x14cm. Courtesy l'artista, Acappella e Galerie Elsa Meunier

Giorgia Aprosio, 06 agosto 2025 | © Riproduzione riservata

«La mia pittura non ha bisogno di alzare la voce». Dialogo con Marta Ravasi | Giorgia Aprosio

«La mia pittura non ha bisogno di alzare la voce». Dialogo con Marta Ravasi | Giorgia Aprosio