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Germano D’Acquisto
Leggi i suoi articoliLa fotografia di Helga Paris non ha mai avuto bisogno di gridare per farsi ascoltare. Le bastava uno sguardo, un gesto appena accennato, una piega del viso colta nell’attimo giusto. Da questo silenzio ostinato, che è la sua cifra più vera, nasce «für uns», la prima grande retrospettiva dedicata alla fotografa tedesca dalla sua scomparsa (2024), ospitata a Fotografiska Berlin dal 6 settembre al 25 gennaio 2026. Curata da Marina Paulenka e Udo Kittelmann, la mostra non si limita a ripercorrere cinquant’anni di carriera, ma diventa un atto di gratitudine verso un’artista che con ogni scatto sembrava mormorare: «Ti vedo».
Paris, nata in Polonia, classe 1938, scopre la fotografia quasi per caso, senza una formazione accademica, quando il mondo intorno a lei è fatto di Gdr, Plattenbau e fabbriche di moda. Da autodidatta, inizia a guardare la realtà con un’empatia rara, senza mai cercare il sensazionalismo. Come lei stessa ha raccontato: «Sono sempre stata attratta dall’ordinario, dall’inespresso. Ma non l’ho mai fotografato in modo clinico, asettico; piuttosto, ho cercato di restituirlo nel modo più realistico e al tempo stesso inquietante possibile». Nei ritratti delle operaie di Treff-Modelle non c’è nulla di eroico: ci sono mani che odorano di stoffa e occhi che sognano un altrove possibile. Nella serie «Berliner Jugendliche», gli adolescenti degli anni ’80 non hanno il peso della storia addosso, ma il passo incerto e bellissimo di chi non sa ancora chi diventerà.
L’esposizione riunisce serie iconiche («Hellersdorf», «Mein Alex«, «Berliner Kneipen») insieme a lavori più intimi come «Erinnerungen an Z.», in cui testo e immagine si fondono per ricostruire frammenti di un’infanzia tra macerie e ricordi sfocati. Persino i suoi autoritratti, lungi dall’essere esercizi di vanità, restituiscono un’osservazione spietata ma dolce di sé, un diario visivo che accetta la vecchiaia con la stessa curiosità con cui scrutava il mondo esterno.
Helga Paris non ha mai inseguito il tempo, semmai lo ha fermato. La sua fotografia non rincorreva mode né ideologie: si muoveva lenta, quasi testarda, alla ricerca di quel punto in cui l’altro smette di essere altro e diventa «noi». Il titolo della mostra, preso in prestito dal poeta Bert Papenfuß, è dichiarazione di poetica: «für uns», per noi. Come se ogni scatto fosse un gesto di alleanza silenziosa, un modo per dire che vivere (e sopravvivere) è sempre un’impresa collettiva.
C’è anche un lato ironico, leggero, nelle sue immagini: lo si ritrova nella serie «Masks», dove amici e parenti improvvisano travestimenti surreali, o nei suoi viaggi a New York e Roma, dove lo sguardo della fotografa resta lo stesso, discreto, gentile, incapace di giudicare. «Ogni persona emana qualcosa di bello, anche quando non è bella nel senso classico del termine», diceva Paris, e basta osservare i suoi volti per capire che quella bellezza, lei, sapeva riconoscerla ovunque.
La retrospettiva si chiude con «Affections», curata postuma, che sembra un ultimo abbraccio a tutto ciò che Paris ha osservato senza mai possederlo. In tempi di nuove divisioni e confini rialzati, il suo lavoro suona oggi più che mai necessario. Non è un’arte che pretende attenzione, ma una pratica paziente di relazione. Marina Paulenka lo sintetizza con precisione: «Le sue fotografie non hanno mai inseguito lo spirito del tempo, ma la curiosità per le persone. In un’epoca di separazioni, ci ricordano silenziosamente ciò che ancora ci lega».
Ecco perché visitare «für uns» non è solo un pellegrinaggio museale: è un invito a rallentare, a condividere lo sguardo di una donna che ha trasformato la quotidianità in un’epopea sommessa, dimostrando che la vera rivoluzione visiva può nascere da un atto semplicissimo: guardare l’altro e, finalmente, vederlo davvero.

Helga Paris, una fotografia dalla serie «Faces and Houses». © Estate Helga Paris

Helga Paris, una fotografia dalla serie «Mein Alex». © Estate Helga Paris