Una veduta di «Enzo Cucchi. Il poeta e il mago» al MaXXI

Image

Una veduta di «Enzo Cucchi. Il poeta e il mago» al MaXXI

La biblioteca di Cucchi al MaXXI

La sanguinosa passione per la poesia del maestro della Transavanguardia apre e chiude la sua mostra romana, dove un lunghissimo tavolo espone un campionario in terracotta delle sue ossessioni

Non è senza significato che la mostra di Enzo Cucchi al MaXXI (sino al 24 settembre) si apra e si chiuda con degli insiemi di libri. Ma a differenza di tanti altri artisti prima e dopo di lui, da Paolini a Parmiggiani, da Stefano Arienti alla giovane Giulia Marchi, Cucchi non usa il libro come materiale da plasmare, né lo raffigura con particolare insistenza. All’inizio del bellissimo percorso espositivo, sinuoso e imprevedibile come il suo modo di gesticolare, avvolgente e capriccioso come il suo tono di voce, è stata ricostruita parte della sua divagante, lussureggiante biblioteca. Alla fine si ammirano i tanti libri d’artista e altre opere su carta (stampata) che costellano questo ormai lungo percorso: uno dei primi è una rarissima raccolta poetica, Testa è estensione della mente, pubblicata dal marchigiano Bugatti all’«enfant du pays» allora ventiquattrenne: era il 1973.

Non sarà l’unico libro di poesie pubblicato in quegli anni da Cucchi. In catalogo c’è una piccola antologia di poesie da lui sanguinosamente amate, tutte provenienti da un primo Novecento ad alto tasso d’espressionismo: da Comisso a Penna, da Rebora al meno noto Dino Garrone (1904-1931), con capofila Dino Campana («Le vele le vele le vele!»). Ricordo quanto mi avesse colpito, una ventina d’anni fa, la copertina di un volume sull’autore dei Canti Orfici con un disegno di Cucchi, iscritto come un anonimo graffito su un muro di campagna: «CAMPANA CAMPA». Campana lives, insomma, e lotta insieme a noi. Da allora, lo confesso, mentalmente ho sempre associato al segno di Cucchi, tanto elegante quanto violento, la memoria dell’«Orfeo barbaro» di Marradi (come lo ha chiamato un suo studioso, Renato Martinoni).

Della costellazione culturale che fa capo al mito della «barbarie» si ritrovano, nell’artista marchigiano, la «dissonanza» sghemba e antigraziosa che Valerio Magrelli sottolinea in catalogo, in un saggio dal titolo eloquente, «Cucchi a Lascaux»; ma anche l’insistenza su forme primarie ed elementari (Testori paragonava i suoi segni «alle incisioni rupestri dei Camuni; ai simboli misterici degli Egizi; ai martirizzati graffiti delle catacombe») e, direi soprattutto, il radicamento viscerale nella «Heimat» di provenienza che, proprio perché soffertamente lasciata (data all’84 il trasferimento a Roma), viene da lui fatta oggetto di recuperi sempre più approfonditi e tormentosi: in quella che è,  allora, una vera e propria «auto antropologia». È un fatto che (lo spiega bene in catalogo Denis Viva, che del movimento inventato da Achille Bonito Oliva è appuntito interprete), dei caballeros della Transavanguardia che fecero furore negli Stati Uniti, «the three C’s»venivano allora chiamati lui, Chia e Clemente, Cucchi sia l’unico ad aver rinunciato a trasferirsi negli States. Troppo forte per lui l’«atavismo riconquistato» (come definiva il proprio Paul Celan) che lo magnetizzava alle correnti ipogee della sua terra.

Ed è questa, credo, la chiave della sanguinosa passione per la poesia di Cucchi. Il quale una volta ha scritto: «La poesia e la pittura sono identiche […]: è una questione di iconografia, di immagine del mondo». Un mondo da lui perlustrato soprattutto nella più terragna, ctonia, conturbante profondità. Errante, eretico, erotico: in questo Cucchi è degno erede, davvero, del più grande artista che la sua terra ci abbia donato nell’ultimo secolo, Osvaldo Licini. Nel febbraio del 1941 questi scriveva a Franco Ciliberti: «Ti scrivo dalle viscere della terra, la “regione delle Madri” […]. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo […]: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche» (cfr. Stefano Bracalente nel catalogo La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Electa 2020).

Per Cucchi, semplicemente, un talismano. Nella nostra cultura non meno che ominosa è la taccia di «pittore letterario»: formula con cui s’intende, di norma, la più inerte attitudine illustrativa e aneddotica. Niente di più distante, si capisce, dalla folgorante sinteticità del gesto di Cucchi. Del quale in catalogo Bartolomeo Pietromarchi riconosce un’altra ascendenza decisiva in de Chirico. Come lui, Cucchi non traspone la poesia in pittura ma al contrario «compone quadri come poesie», con «un suo particolare alfabeto che ha prodotto una sua lingua, una sua grammatica e una sua sintassi»: in modo che ogni lavoro inconfondibilmente rimanda agli altri, eppure dagli altri è sempre diverso (se unica è la «langue», multiforme si dispiega la sua «parole»). Lo rivela quello che della mostra al MaXXI è la «spina allestitiva» (Lonardelli): un lunghissimo tavolo dalla forma irregolare che espone una serie di terrecotte dipinte a freddo nel 2008, una specie di campionario delle ossessioni dell’artista.

Si pensi al più caratteristico di questi segni ricorrenti: il teschio. Sintomatico che lo stesso Cucchi lo abbia ricondotto ora al proprio sostrato biografico («il cimitero fa parte del mio paesaggio; è una delle cose che conosco meglio»), ora a una costante diciamo grammaticale («il teschio non è una cosa spaventosa, è solo un elemento primario, elemento di conoscenza»), per infine sintetizzare: «Cézanne dipingeva mele. I miei teschi sono le mie mele» (cfr. Alberto Zanchetta, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive, Johan & Levi 2011). Tornando all’enciclopedia poetica delle sue Marche, si pensa allo «stema» tormentoso del bucranio, il «cranio de bove a gesso» che splende torvo in testa alla più ruvida raccolta di Franco Scataglini, Carta Laniena (1982): a dire, dell’individuo e della specie cui appartiene, «segno fato patema». Pathosformel persecutoria, è questo semplicemente il segno della terra. Da quella proveniamo e a quella, ci dice Cucchi, ineluttabilmente siamo destinati a fare ritorno.

Andrea Cortellessa, 03 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Nella fantascientifica Centrale Montemartini una mostra, curata da Chiara Sbarigia con la collaborazione di Dario Dalla Lana, nata contemplando i fondali di cartapesta di Cinecittà

Cronaca di un rapporto tra due esseri «definitivamente trasumanati nella luce del mito». La visita di Andrea Cortellessa alle mostre al Museo Teatrale alla Scala e a Casarsa della Delizia

Andrea Cortellessa ha visitato la mostra romana. «Un percorso impeccabilmente didascalico che si conclude, com’è giusto, con lo stesso artista che lo aveva inaugurato: Giulio Paolini»

La sanguinosa passione per la poesia del maestro della Transavanguardia apre e chiude la sua mostra romana, dove un lunghissimo tavolo espone un campionario in terracotta delle sue ossessioni

La biblioteca di Cucchi al MaXXI | Andrea Cortellessa

La biblioteca di Cucchi al MaXXI | Andrea Cortellessa