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Redazione
Leggi i suoi articoliDa quando, lo scorso dicembre, in Siria l’opposizione ha rovesciato l’ex presidente Bashar al-Assad, il saccheggio e il traffico di antichità hanno raggiunto livelli senza precedenti. Il fenomeno è documentato almeno dal 2012, ma negli ultimi mesi c’è stata un’accelerazione notevole, tanto che stando ai dati forniti dall’Athar (Antiquities Trafficking and Heritage Anthropology) Project, un progetto che indaga sui mercati neri delle antichità online, quasi un terzo dei 1.500 casi siriani registrati dal 2012 si sono verificati solo dal dicembre scorso. Palmira è tra i siti più minacciati. A maggio 2015 la splendida «Sposa del deserto» cadde nelle mani dell’Isis, che fece saltare in aria parti delle rovine; pochi mesi dopo, ad agosto, i miliziani uccisero Khaled al-Asaad, l’archeologo che aveva dedicato la sua vita alla protezione del patrimonio dell’antica città. Ora i saccheggi e il traffico di antichità, anche attraverso i social media.
A questa «corsa all’oro» scatenatasi dopo il collasso di un apparato di sicurezza un tempo temuto (cui si somma la povertà diffusa), il giornalista William Christou ha dedicato un servizio pubblicato sul quotidiano britannico «The Guardian». Tra gli esperti interpellati da Christou, Amr al-Azm, professore di storia e antropologia del Medio Oriente alla Shawnee State University in Ohio e condirettore del progetto Athar, afferma: «Quando il regime di Assad è caduto abbiamo assistito a un enorme aumento sul campo. È stato un crollo totale di qualsiasi vincolo che potesse esistere durante i periodi del regime che controllava i saccheggi».
«Gli ultimi tre o quattro mesi, conferma Katie Paul, condirettrice del progetto Athar e direttrice del Tech Transparency Project, hanno visto il più grande flusso di traffico di antichità che si sia mai visto, in qualsiasi Paese. E i manufatti vengono venduti a una velocità che non avevamo mai visto. Prima, ad esempio, ci voleva un anno per vendere un mosaico proveniente da Raqqa. Ora bastano due settimane».
Armati di picconi, pale, martelli pneumatici e metal detector, i saccheggiatori agiscono di notte, in cerca di tesori da rivendere online. Scavi frettolosi, che danneggiano gli strati archeologici, cancellando le informazioni sul contesto: «Questi diversi strati sono importanti, sottolinea Mohammed al-Fares, palmireno e attivista dell’Ong Heritage for Peace. Se le persone li mescolano, sarà impossibile per gli archeologi capire cosa stanno guardando».
Alla luce del sole la distruzione causata dai tombaroli è evidente. Buche profonde tre metri deturpano il paesaggio di Palmira.
Paul, insieme ad Azm, traccia online il percorso delle antichità mediorientali trafficate a partire dal 2012: il loro database conta ad oggi oltre 26mila screenshot, video e immagini di reperti. Nel 2020, Facebook ha vietato la vendita di antichità storiche sulla sua piattaforma e ha dichiarato che avrebbe rimosso qualsiasi contenuto correlato. Secondo Paul, però, è una politica applicata di rado nonostante le vendite sulla piattaforma continuino ad essere ben documentate.
«Il traffico di beni culturali durante i conflitti è un reato, e in questo caso Facebook funge da veicolo per il reato. Facebook sa che si tratta di un problema», afferma Paul, che monitora decine di gruppi di commercio di antichità attivi sulla piattaforma; il più grande con ben 900mila membri. I gruppi Facebook sono utilizzati come porta d’accesso per i trafficanti, mettendo in contatto saccheggiatori in Siria con reti criminali che contrabbandano i manufatti (monete, mosaici, busti, anche molto pesanti) fuori dal Paese verso la Giordania e la Turchia. Da lì, segnala Christou, i pezzi vengono spediti in tutto il mondo, con false fatture di vendita e attestazioni di provenienza, in modo da poter essere riciclati nel mercato grigio dei beni antichi. Dopo 10-15 anni arrivano nelle case d’asta legali, dove collezionisti e musei, principalmente situati negli Stati Uniti e in Europa, li acquistano.
Il nuovo governo siriano ha esortato i saccheggiatori a smettere, offrendo una ricompensa a chi consegna i reperti anziché venderli e minacciando i trasgressori con pene fino a 15 anni di carcere. Ma, impegnata a ricostruire un Paese devastato e a lottare per affermare il proprio controllo, Damasco ha poche risorse per proteggere il proprio patrimonio archeologico.
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