Massimiliano Gioni con il collezionista Tony Salamé davanti a «Dear Mary» (2008) di Richard Prince nella mostra «Good Dreams, Bad Dreams: American Mythology» (2016-17) curata da Gioni alla Aïshti Foundation di Jal El Dib (Libano)

© Guillaume Ziccarelli e Aïshti Foundation

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Massimiliano Gioni con il collezionista Tony Salamé davanti a «Dear Mary» (2008) di Richard Prince nella mostra «Good Dreams, Bad Dreams: American Mythology» (2016-17) curata da Gioni alla Aïshti Foundation di Jal El Dib (Libano)

© Guillaume Ziccarelli e Aïshti Foundation

L’America di Tony Salamé è barocca e apocalittica

A Roma un magnate libanese della moda espone 130 opere d’arte contemporanea. Sono le «inquietudini caravaggesche» di una delle più antiche democrazie del mondo

Italia e Usa si confrontano a Palazzo Barberini, passando prima per il Libano: la mostra «Effetto Notte: Nuovo Realismo americano. Opere dalla Collezione di Tony e Elham Salamé», aperta nella residenza seicentesca della famiglia di Urbano VIII, riunisce, dal 14 aprile al 14 luglio, 130 opere di una delle maggiori collezioni al mondo. I curatori sono Massimiliano Gioni e Flaminia Gennari Santori (ex direttrice delle Gallerie nazionali d’arte antica Barberini-Corsini, ora guidate da Thomas Clement Salomon). Il collezionista è il libanese e cosmopolita Tony Salamé, fondatore di un impero del lusso (legato alla vendita dei maggiori marchi della moda), cui ha aggiunto da venti anni in qua un impero d’arte, costituito da tremila opere acquistate con passione vorace in fiere, gallerie e studi d’artista di tutto il mondo. Come vuole il vangelo dei magnati della moda secondo Pinault, Prada e Arnault, anche Tony Salamé ha eretto al suo amore per l’arte un museo privato, la Aïshti Foundation, gigantesco edificio progettato a Beirut dall’architetto britannico David Adjaye. Nelle ampie sale sono ospitate a rotazione le opere degli artisti maggiori degli ultimi settant’anni, tra cui alcuni di quelli in mostra nella reggia dei Barberini: John Baldessari, Cecily Brown, Maurizio Cattelan, George Condo, Nicole Eisenman, Jimmie Durham, Urs Fischer, Wade Guyton, Duane Hanson, Shara Hughes, Raymond Pettibon, Richard Prince, Charles Ray, Sterling Ruby, David Salle, Julian Schnabel, Cindy Sherman, Kara Walker, Stanley Whitney, Christopher Wool. Massimiliano Gioni ha curato, sin dall’inaugurazione della Aïshti Foundation nel 2015, tutte le maggiori mostre lì ospitate. Questa di Roma suggella quindi un sodalizio, nato anche in nome dell’Italia: «La passione per l’arte di Salamé, racconta Gioni, è iniziata in Italia, quando ha cominciato a comprare opere di Lucio Fontana e Alberto Burri. Peraltro, Salamé è italo-libanese, avendo acquisto cittadinanza italiana negli anni ’90, quando per il suo lavoro di esportazione di brand di moda italiani in Medio Oriente soggiornava lungamente a Milano, dove ha ancora casa».

«Untitled #571» (2016) di Cindy Sherman. Cortesia dell’artista e Metro Pictures, New York

«Effetto Notte»: che cosa ha voluto esprimere con questa metafora dell’ambiguità?

Il senso di un’America notturna, inquietante e inquieta, si ritrova in moltissime delle opere in mostra, così come la paura o la premonizione di una fine imminente che tinge molti lavori di un sentore drammatico, anche apocalittico in certi casi. Una delle immagini guida, che svetta nella prima sala della mostra, è un bellissimo quadro di Nicole Eisenman, intitolato «Dark Light», ovvero «Luce scura». È un quadro al centro del quale si erge una persona che con una torcia elettrica squarcia l’oscurità: è un’immagine che mi sembrava un’allegoria perfetta del ruolo dell’artista contemporaneo che, novello Diogene, si aggira per le strade a caccia della verità. Ed è anche un quadro che, con l’uso del chiaroscuro e di questo fascio di luce, sembrava anche richiamare gli esperimenti di Caravaggio e dei caravaggeschi, presenti numerosi a Palazzo Barberini con splendide opere.

Il titolo «Nuovo realismo americano» riunisce tre termini importanti. «Nuovo»: rispetto a che cosa? «Realismo»: nei confronti di quale realtà? E che cosa vuol dire oggi «americano»?

In realtà penso siano le stesse domande che si pongono molti degli artisti in mostra. La questione di cosa sia «America» oggi è fondamentale per moltissimi artisti contemporanei. La questione di quale «realtà», e se esista ancora tale concetto, rischia quasi di diventare una questione di sopravvivenza per una delle più antiche democrazie moderne. Se ci sia o meno una verità condivisibile è una questione che ha quasi causato una guerra civile nel gennaio del 2021, con l’assalto al Campidoglio e con la conta dei voti sui quali, ancora dopo quattro anni, milioni di americani non sembrano accordarsi. C’è anche da dire che il realismo è un tema così profondamente americano, dalla letteratura al cinema e alla pittura degli anni Trenta, per passare attraverso la Pop art e i dibattiti sul postmoderno degli anni Ottanta e Novanta. La scelta dell’aggettivo «nuovo» era per indicare che la mostra si concentra in particolare sull’ultimo decennio o giù di lì. Ci sono anche figure e opere più storiche ma sono state scelte perché anticipano o sono in dialogo con l’opera di artisti più giovani.

 

«Dark Light» (2017), di Nicole Eisenman. Cortesia dell’artista e Susanne Vielmetter Los Angeles Projects. Foto Adam Reich, NY

Questa mostra mette a confronto il grande collezionismo di oggi (Salamé) con quello di quattro secoli fa (Barberini): che cosa accomuna queste due avventure dell’accumulo di bellezza?

Credo ci siano delle risonanze profonde tra il nostro momento storico e il Seicento dei Barberini. Viviamo un’età neo-barocca, secondo la fortunata definizione di Omar Calabrese. Il grottesco e il mostruoso, la nascita di una nuova società dello spettacolo (come si direbbe oggi), l’uso di nuove tecnologie, la cultura dell’immagine e l’emergere di una concezione dell’universo come uno spazio pluricentrico e frammentato nel quale nascono nuove rappresentazioni della realtà, sono solo alcuni dei temi che trovano inedite corrispondenze tra il Seicento e il nostro presente. Le relazioni che legano rappresentazione della realtà, potere e spettacolo sono temi centrali dell’arte di oggi come di quella del Seicento.

Un flusso d’arte americana in un museo di capolavori soprattutto italiani: è la storia di questa mostra, e anche un po’ la sua, di italiano newyorchese. Che cosa hanno da dirsi queste due grandi nazioni?

C’è una lunga storia che lega l’Italia, e Roma in particolare, agli Stati Uniti d’America, dalla seconda guerra mondiale in poi: nel bene e nel male, tanti miti che hanno definito queste due nazioni negli ultimi settanta e passa anni sono nati a Roma. Basti pensare ai soldati americani nei giorni della liberazione, alle «cicche americane», come le chiamava mia nonna, ai jeans di Porta Portese o alla Roma di Cinecittà e di «Vacanze romane», tanto per citare certi aspetti oleografici e magari più stereotipati. Certo ci sono tanti altri aspetti assai più chiaroscurati, di un rapporto anche di amore e se non di odio, certo di scetticismo, nella relazione tra Italia e America, dalla guerra fredda in poi, passando per gli anni Settanta e certo anti imperialismo o poi la voga yuppie degli anni Ottanta e così via. Quindi c’era e c’è questa relazione complessa che ci piaceva affrontare proprio a Roma e in un anno, quello delle elezioni americane, che già si prospetta complicatissimo per quella che dovrebbe essere la più grande democrazia dell’era moderna.

È follia pensare che lei possa venire a vivere un giorno addirittura a Roma?

Non credo ci sia persona con un poco di sale in zucca che direbbe che fatica a immaginarsi a vivere a Roma… D’altra parte, però, si sa che non si è mai profeti in patria, quindi aspettiamo di vedere come andrà questa mostra. È la mia prima a Roma: quanto è bello esser dovuti passare da Beirut per arrivare a via delle Quattro Fontane!

 

 

 

 

 

 

 

 

«Le Rage» (2017), di Arthur Jafa. Cortesia dell’artista e Gavin Brown’s enterprise e Aishti Foundation

Guglielmo Gigliotti, 12 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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