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L’estetica dei dittatori per l’estasi dei popoli

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Franco Fanelli

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In più occasioni, a partire del pamphlet La responsabilità dell’artista, pubblicato da Allemandi nel 1998, Jean Clair ha rilevato inquietanti affinità tra il programma totalizzante delle avanguardie storiche e i totalitarismi europei della prima metà del ’900. Fra i tratti in comune, secondo lo storico dell’arte francese, l’irrazionalismo, la violenza, l’antiumanesimo e, spesso, il disprezzo per la cultura. È un’ambiguità dalla quale conviene partire per interpretare il ruolo degli artisti sotto i regimi fascista, nazista e comunista. Talora, più che di connivenza, si tratta di corrispondenza tra visioni estetiche coincidenti. Lo si vede soprattutto in Italia, e segnatamente nell’architettura, alla luce della convergenza tra classicismo e modernismo: «Sarebbe (...) riduttivo, sul piano critico, ricondurre al condizionamento ideologico il filone più classicista dell’architettura del ventennio espresso da Marcello Piacentini, Giovanni Muzio, Emilio Lancia, Enrico Del Debbio, Tomaso Buzzi e Giò Ponti, che perseguono la via innovativa della tradizione». Lo scrive Maria Adriana Giusti, docente al Politecnico di Torino, nel suo libro Arte di regime (Giunti Editore, 262 pp., ill., € 41,65). Allo stesso modo andrebbe interpretato il ritorno all’ordine come fenomeno non riducibile ai diktat politici, ma come movimento diffuso e coniugato in diverse accezioni in tutta Europa: il dibattito, in questo caso, è aperto, come hanno dimostrato le reazioni alla mostra «Chaos and Classicism: Art in France, Italy and Germany 1918-1936» al Guggenheim Museum di New York nel 2011. Ancora più complesso è il caso di Mario Sironi, pure fascista convinto, ma anche lontano dall’enfasi trionfalistica: lo ha studiato approfonditamente Emily Braun (Mario Sironi e il modernismo italiano. Arte e politica sotto il fascismo, Bollati Boringhieri, 2003), mentre affinità e differenze tra architettura fascista e nazista sono state recentemente indagate da Sandro Scarrocchia (Albert Speer e Marcello Piacentini. L’architettura del totalitarismo negli anni Trenta, Feltrinelli, 2013). Il volume della Giusti è soprattutto un percorso iconografico (purtroppo privo di indicazioni bibliografiche) sull’arte, la grafica e l’architettura prodotte in Italia, Russia e Germania negli anni dei totalitarismi. Mentre in Germania la messa al bando dell’«arte degenerata» da parte di Hitler fu radicale e immediata e da subito, in pittura e scultura, per mano dei vari Adolf Ziegler e Arno Breker, si afferma un’estetica con pretese classiciste, in Italia la messa al bando di Fontana, Guttuso, De Chirico e Carrà si compirà negli anni Trenta, culminando nel Premio Cremona istituito dal gerarca Farinacci. In Russia, l’eredità e le innovazioni del Costruttivismo permangono soprattutto nella grafica, e in pittura lo stile avanguardista, declinato su temi cari a tutti i regimi totalitari (la città, l’industria, gli armamenti, lo sport) convive all’inizio con la progressiva messa a punto del Realismo socialista. La profusione di immagini del volume consente raffronti tra l’architettura di Speer, interprete dei deliri urbanistici di Hitler, e l’opera dei suoi colleghi russi come Iofan, Rudnev, Vesnin e Leonidov, tra le fotografie di Leni Riefenstahl e quelle di Rodcenko, tra le affiche pubblicitarie di Dudovich per la Pirelli e il terrificante manifesto della mostra antisemita «L’eterno ebreo», allestita nel ’37-38 a Dortmund, ma anche di misurare la distanza tra la malinconia di Sironi e di Arturo Nathan (pittore ebreo vicino alla metafisica dechirichiana) e la «Guerra-festa» che nel ’25 dà il titolo a un dipinto di Depero. Germania e Russia si ritrovano infine appaiate nel più didascalico realismo (adottato nel 1931 anche da Balla per una «Marcia su Roma» buona come copertina de «La Domenica del Corriere»), atto a idealizzare le fisionomie dei dittatori o a celebrare i riti del regime ed edificanti scene di vita quotidiana di famiglie ariane. Col senno di poi, è interessante riscontare le analogie stilistiche tra «Il seminatore» del tedesco Amorbach e il realismo interpretato in quegli anni dall’americano Grant Wood, o tra le scene balneari del russo Deineka e gli attuali dipinti di Eric Fischl, per non dire dei nudi di Ziegler che decoravano il salotto del führer a Monaco e quelli che oggi garantiscono il successo a John Currin.




progetto per il Palazzo dei Soviet a Mosca (1933-35) di Vladimir Gelfreikh, Boris Iofan e Vladimir Shchuko

il Salotto del führer a Monaco dell’architetto Leonhard Gall con il dipinto «I quattro elementi» (1937) di Adolf Ziegler

Progetto per la casa madre del Balilla in prossimità del Foro Mussolini (1932-33) di Enrico Del Debbio

Franco Fanelli, 18 febbraio 2015 | © Riproduzione riservata

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