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José Antônio da Silva, «Algodal», 1972

Photo by Sérgio Guerrini

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José Antônio da Silva, «Algodal», 1972

Photo by Sérgio Guerrini

José Antônio da Silva: la bellezza del «primitivo» amata dal mercato

A San Paolo due mostre celebrano uno dei più amati «primitivisti» di sempre, corteggiato dall'arte ufficiale e dal mercato. Ne parliamo con Vilma Eid, fondatrice della galleria Estação

Parte della Stagione Brasil/França 2025, la grande mostra personale di José Antônio da Silva «Pintar o Brasil», il cui tour è iniziato ad aprile 2025 al Museo di Grenoble, passando per la Fundação Iberê Camargo di Porto Alegre, che arriva ora a San Paolo al Museo di Arte Contemporanea (MAC – USP), in una versione ampliata: 142 opere, a cura di Gabriel Pérez-Barreiro, fino al 15 marzo. Artista autodidatta di origine popolare con una formazione molto limitata, originario del villaggio di Sales de Oliveira, area rurale dello stato di San Paolo, dove cresce in una famiglia di agricoltori, José Antonio da Silva (1909-1996) è stato uno dei più importanti artisti «primitivisti», come lui stesso si definiva, non solo del Brasile, ma del mondo. La sua prima personale arrivò nel 1946 e subito dopo partecipò a diverse edizioni della Biennale di San Paolo e anche a quella di Venezia, dove ebbe una sala personale nel 1966. Dissuado dal padre a dipingere, si dedicò all'arte solo a partire dai 30 anni, incoraggiato dallo psichiatra Osório César, che vide in lui un talento innato nel ritrarre la vita quotidiana, i fenomeni atmosferici, la religione, le vedute dei campi di mais e il raccolto del cotone, solo per citare alcuni dei temi più cari a Silva.

In scena, infatti, provenienti da collezioni private che includono quelle della fondatrice di SP Arte, Fernanda Feitosa, dell'artista Lucas Arruda e del celebre psicoanalista e collezionista Theon Spanudis, ci sono tutta la vita e la natura che il pittore incontrava dentro gli stessi elementi naturali, come le foglie di caffè: «La natura stessa è già un'artista», come dichiarava lui stesso al regista Carlos Augusto Calil, il cui documentario «Quem não conhece o Silva» (Chi non conosce Silva, disponibile anche su YouTube, Ndr), 1979, è un vero e proprio riferimento rispetto alla sua poetica e visionarietà.

Ma non è tutto, perché anche la Galleria Estação di Vilma Eid contribuisce a mettere in luce l'opera di José Antônio con la mostra «Eu sou o Silva», curata da Paulo Pasta, anch'essa fino al 15 marzo. E è stata la stessa fondatrice della Galleria Estação che, nel corso degli ultimi anni, ha continuato a promuovere la conoscenza e persino il mercato di Silva, da quando il «Primitivismo» non era ancora tornato di moda.

«Con Silva ho un rapporto speciale: il mio primo sguardo sull'arte fu per lui. Successe infatti che nel 1971, per il mio compleanno, mia madre – che era scultrice – volle farmi un regalo, un'opera d'arte, e mi portò in una galleria chiamata Cosme Velho, una delle pioniere tra le gallerie di San Paolo. All'epoca non sapevo assolutamente nulla di arte, ma rimasi incantata da quell'opera e la volevo, ma sia mia madre che il gallerista mi sconsigliarono, dicendo che era un «Primitivista». Quel dipinto è rimasto nella mia memoria fino a quando, nel 1984, fui invitata dal produttore Paulo Vasconcelos a entrare come socia nella galleria che stavano aprendo: in quel momento venni a sapere che quell'artista che ricordavo da tanti anni si chiamava José Antônio da Silva, e viveva a San Paolo. Da allora ho cominciato a frequentare il suo atelier e sono rimasta incantata. Lo andavo a trovare spesso. È diventato, per me, una grande icona, un fulcro della storia dell'arte», ci ricorda la gallerista. «La galleria ha compiuto 21 anni e continuo a scherzare dicendo che ci sono solo due tipi di arte: quella buona e quella cattiva. La caratteristica della mia collezione è questa: unisco tutto, cioè, tutto quello che considero buono. È ovvio che studio molto, logicamente non tutto quel che è primitivo e popolare è da salvare, ma ho imparato a rispettare il mio sguardo: prima di iniziare a rappresentare un artista, ad esempio, porto alcune opere in galleria e ci passo del tempo; se sopravvivono alla prova, allora proseguo», racconta ancora, ricordando anche la sua ritrosia nell'aprire un'altra attività commerciale legata all'arte, dopo l'esperienza con Vasconcelos, conclusa a causa dell'enorme inflazione che colpì il Brasile durante il Governo Collor, all'inizio degli anni '90. «Fu allora che fui invitata a far parte di un'azienda di produzione di eventi: i due soci si innamorarono della mia expertise, della mia conoscenza dell'arte popolare. E da quel momento iniziai a viaggiare e a comprare tutto quello che potevamo comprare come azienda, fino a quando abbiamo creato un archivio e comprato, nel 2000, l'attuale spazio della galleria, che era un magazzino, in un'epoca in cui Pinheiros [oggi uno dei quartieri più gentrificati di San Paolo, ndr] era completamente diverso».

 

José Antônio da Silva, «Senza Titolo», 1981. Collezione Alexadre Martins Fontes, Tutti i diritti riservati

José Antônio da Silva, «Senza Titolo», 1979. Collezione Vilma Eid, ph. João Liberato

Ma la storia della galleria, un po' come i mercati, non è lineare: prima white cube ad ospitare arte primitiva e popolare, il percorso di Estação non è stato sempre facile, anzi, ci sono stati diversi momenti di non accettazione da parte del «sistema dell'arte», come ricorda Vilma, incluso l'essere stata inizialmente lasciata alla porta da SP Arte, fino a quando nel 2008 un gruppo di operatori del settore – guidati dal curatore Ivo Mesquita, pianificarono una petizione per rendere giustizia all'attività culturale della Galleria Estação. Il cambiamento di passo, lo spiega ancora la stessa Vilma: «Ero stata talmente traumatizzata dalla chiusura della galleria che avevo giurato a me stessa che non avrei mai più aperto un'attività del genere. Eppure qualcosa stava cambiando: al piano terra nacque uno spazio per eventi, e al piano superiore mantenemmo l'archivio, che comunque volevo solo tenere in esposizione». Succede però che molti degli artisti di Vilma Eid, all'epoca, erano ancora vivi, «E io mi sentivo responsabile per loro. Se avessi venduto, li avrei aiutati».

Oltre ai «popolari», da Antônio Poteiro a José Bezerra, da Maria Auxiliadora a Véio a Ranchinho, la galleria è stata anche la prima a esporre Sônia Gomes a San Paolo, una delle artiste più seguite della scena latina contemporanea, forte presenza alla Biennale di San Paolo nel 2023 e attualmente in mostra all'Istituto Tomie Ohtake con una grande retrospettiva. E poi Santídio Pereira, uno degli artisti più giovani ad entrare nella collezione della Fondation Cartier, che con Estação lavora fin dai suoi esordi.

«Non mi sono mai arresa, non ho mai pensato di dover fare qualcos'altro. Ma un bel giorno il critico Rodrigo Naves arriva da me, dicendomi che dovevo conoscere un incisore dell'Istituto Acaia, dove lui dava corsi. Era Santidio. E fu così che la galleria iniziò con l'arte contemporanea. In effetti, all'epoca, i miei pensieri non mi davano tregua: criticavo tanto gli altri perché non guardavano l'arte popolare, ma anch'io non stavo facendo nulla con l'arte contemporanea». Da allora sono passati circa quindici anni: «Molto tempo? O forse no. Ma il tempo è passato molto velocemente a causa dei social media. È cambiata davvero la percezione del tempo e di come le persone lo fruiscono», conclude Vilma Eid.

E allora forse, per riconnetterci un po' a una dimensione non accelerata, oltre le mode e i mercati, è necessario valorizzare la nostra stessa storia, un po' come faceva José da Silva, innalzandosi come creatore della propria arte e ancor più della sua identità, della sua brasilianità. «Eu sou o Silva» (Io sono Silva, Ndr) era una frase ripetuta costantemente dall'artista, come racconta il curatore Paulo Pasta, in una dimostrazione di affermazione del suo posto nel mondo, ribattendo sul suo cognome, il più comune e popolare tra i cognomi brasiliani. Il segno dell'autenticità più pura.

Matteo Bergamini, 10 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

José Antônio da Silva: la bellezza del «primitivo» amata dal mercato | Matteo Bergamini

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