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Thomas Clement Salomon
Leggi i suoi articoliLa realizzazione di una grande mostra richiede un cospicuo quantitativo di passione che funga da propulsore nei tre lunghi anni della sua preparazione. Un triennio in cui anche la più seria e solerte delle organizzazioni è destinata all’inevitabile sopraggiungere di rifiuti, ritardi, complicazioni delle più disparate lungaggini burocratiche, personalismi, esose richieste economiche costantemente minano la volontà di curatori e organizzatori di tali eventi culturali.
In un panorama caratterizzato dall’estrema scarsità di sponsorizzazioni, indisponibilità di fondi pubblici e fisiologica incertezza sul numero di visitatori che potranno rispondere al richiamo della mostra, le preoccupazioni non possono che essere fondate. Nonostante tutto ciò, il viaggio è entusiasmante soprattutto se l’occasione è quella di presentare per la prima volta in Italia l’opera di Georges de La Tour.
«Eroe» della pittura del Seicento in Francia, adombrato in Italia, e particolarmente a Milano, da Caravaggio, in un confronto a distanza che fin dalla sua riscoperta critica si porta dietro, La Tour è finalmente protagonista di una mostra inaugurata lo scorso 7 febbraio a Milano in Palazzo Reale (che riaprirà al pubblico il 28 maggio).
Nessuno poteva immaginare che l’apertura al pubblico sarebbe durata per così breve tempo, per poi venire contingentata e infine chiusa del tutto. Le ragioni della «serrata» sono ben note: Covid-19 è il nome della pandemia che, insieme ad altre nefaste sciagure, ha comportato la chiusura della maggior parte dei musei del mondo.
Alcuni valorosi milanesi, che sono accorsi poco dopo l’inaugurazione, ce l’hanno fatta ad ammirare La Tour, ma certo in pochi hanno potuto godere fino ad ora dei suoi capolavori, del percorso espositivo frutto del progetto di ricerca, delle oltre 30 opere provenienti da luoghi lontani e diversi.
Anche quando si potrà tornare a viaggiare, è inimmaginabile poter percorrere le migliaia di chilometri che dividono queste opere custodite in Ucraina, su entrambe le coste degli Stati Uniti e in remoti paesini francesi quali Vic-sur-Seille, dove Georges de La Tour è nato nel lontano 1593.
Altrettanto difficilmente, negli anni a venire, si potrà organizzare un’altra mostra su questo artista, considerata la rarità della sua opera. Il suo lascito pittorico, infatti, non arriva neanche a quaranta dipinti in tutto il mondo, davvero pochi perché i musei non se li tengano stretti.
È un bel dono per Milano e per la Lombardia offrire al pubblico, fino al 27 settembre, quell’intima bellezza dei dipinti del pittore francese. Un bel modo di farsi accompagnare in questo nuovo inizio, con una mostra fuori dal comune, dopo un periodo così cupo.
La prima opera in mostra, nelle sbarrate sale di Palazzo Reale, è la toccante rappresentazione della «Maddalena penitente» giunta in prestito dalla National Gallery of Art di Washington. Soggetto caro al pittore lorenese, la Maddalena è qui raffigurata in solitaria meditazione, in lotta con il suo passato e intenta a riflettere sul tema della caducità umana.
Chiude invece il percorso espositivo il «San Giovanni Battista nel deserto» in prestito dal Musée Départemental Georges de La Tour di Vic-sur-Seille. Anche il Battista, come la Maddalena, è rappresentato nelle tenebre, solo e in atteggiamento riflessivo con la sola compagnia dell’agnello che spunta ai suoi piedi.
A partire da quel 10 marzo in cui è iniziato il lockdown in Italia, a quasi quattrocento anni di distanza dalla realizzazione di queste due splendide opere, quante donne a casa, senza rendersene conto, si saranno fermate come la Maddalena di La Tour a riflettere sulla sofferenza dei malati e sulla nostra fragilità. Quanti uomini si saranno seduti, con il volto chinato come il nostro Battista, a pensare quanto sia difficile accettare l’impossibilità di celebrare un funerale, di abbracciare i nostri cari, di uscire, di apprezzare il risveglio della primavera, insomma di vivere liberamente e di essere umani.
È probabile che in questi momenti avessimo in mano i nostri tablet o i nostri smartphone anziché carezzare il teschio come la Maddalena. È probabile che al posto dell’agnello del Battista vi fosse il nostro cane a farci compagnia con il muso tra le gambe, ma i sentimenti e le preoccupazioni nel profondo dell’animo sono gli stessi.
La riflessione della Maddalena, la solitudine del Battista, sono le nostre e sono le medesime di Georges de La Tour che, vissuto in un periodo tormentato da guerre e carestie, ha sentito il bisogno di dipingerli così. Le loro storie sono legate a noi attraverso un filo che ci unisce percorrendo i secoli e ci devono trasmettere speranza e fiducia nel futuro. Testimoniano che, nonostante le difficoltà, le guerre e le epidemie, l’umanità ce la fa e in molti casi ne esce più forte, seppur con la splendida consapevolezza che, come ci insegna Montaigne, «l’umanità è un giardino imperfetto destinato a rimanere tale».
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