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Veronica Rodenigo
Leggi i suoi articoliPer la prima volta la Biennale varca i propri abituali confini e lo fa attraverso un progetto speciale itinerante, sviluppato dal suo Archivio Storico-Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, che pone in dialogo Oriente e Occidente. A curarlo è Luigia Lonardelli che ha colto la ricorrenza dei 700 anni dalla scomparsa di Marco Polo (1324-2024) per ripercorrerne in parte le orme. Il risultato è un viaggio a tappe, quattro sino ad ora, dal titolo «È il vento che fa il cielo», partito da Hangzhou, in Cina, per poi toccare Venezia, Istanbul e arrivare a Nuova Delhi, presso la Bikaner House, fino al 28 dicembre.
«Attraverso la suggestione del percorso di Marco Polo, partito senza sapere che cosa avrebbe trovato lungo il suo cammino, ci racconta la curatrice, si sviluppa l’idea che anche la Biennale possa trovare sedi temporanee in cui sostare per un po’. Per Marco Polo si trattava di un percorso frammentario, non predeterminato, includente la scoperta dell’altro, la dimensione del desiderio, della vertigine del non conosciuto. Il format si modifica così a seconda del luogo in cui ci fermiamo. Abbiamo iniziato nel novembre dello scorso anno in Cina con la mostra “Il sentiero perfetto” al Caa Art Museum di Hangzhou. Siamo poi giunti a Venezia (a Ca’ Giustinian) nel dicembre 2024 con l’artista tessile kazaka Gulnur Mukazhanova guardando a un’area geografica percorsa dal viaggio meno conosciuto di Niccolò e Matteo, padre e zio di Marco Polo. Nell’ottobre 2025 presso Artİstanbul Feshane, un’ex fabbrica tessile, l’artista turco Cevdet Erek ha esplorato le ultime ricerche della scena musicale della città. E ora abbiamo aperto a Delhi una mostra tra artigianato e design dal titolo “Interno Indiano”, in collaborazione con il Kiran Nadar Museum of Art (Knma). Continueremo con la Mongolia a metà del prossimo anno. In generale il progetto mira a uscire da una logica molto stretta di canone espositivo cercando di considerare l’evento mostra al di là del tempo e dello spazio. Ogni tappa infatti si modifica, accomunata da una struttura, una sorta di modulo costruttivo di Cevded Erek ridisegnato e ridefinito ogni volta proprio come luogo d’incontro, che segue la carovana della Biennale».
Con quali criterio vengono scelti i protagonisti di queste esposizioni?
Fin dall’inizio della ricerca ho voluto mantenere un atteggiamento aperto rispetto al contesto e al luogo ospitanti. Cerco di sondare quali siano le condizioni interessanti della scena creativa senza dover cercare all’interno di una categoria precisa. Ad Hangzhou, ad esempio, insieme alla China Academy of Art, sono stata molto colpita dal tipo di formazione transmediale degli artisti. Forse dovremmo trovare un altro termine per definirli: si tratta di persone che sono in grado di lavorare in tantissimi campi della creatività. Quindi ho voluto che la mostra si concentrasse su questo tipo di formazione. Di contro, approcciandomi alla scena di Istanbul, ho voluto dare conto di una serie di sperimentazioni nel campo del sound design in questo momento particolarmente rilevanti. Il criterio si adatta alla situazione che troviamo, non il contrario. Questo progetto non vuole portare una mostra dall’esterno in un altro Paese ma trovare nel luogo in cui siamo una modalità per essere.
Qual è la peculiarità di quest’ultima tappa indiana?
L’India è un continente di fatto sconfinato e quello su cui mi son voluta concentrare è stata un’interconnessione fra più linguaggi, in questo momento particolarmente viva nel Paese cioè il mancato dissidio (ancora invece molto radicato in occidente) tra arti applicate e creatività pura. Il progetto cerca di ridefinire alcuni confini terminologici, ciò che intendiamo per opera, per artista, per artifex, per designer e anche i confini di ciò che intendiamo per mostra.
Protagonisti a Delhi sono Gunjan Gupta (Mumbai, 1974), Asim Waqif (Hyderabad, 1978), Chanakya School of Craft & Karishma Swali (Mumbai, 1977), Studio Raw Material.
Gunjan Gupta, formatasi a Londra e che ho voluto inserire perché più presente nell’ambito europeo, è stata la prima a mettere in crisi un tipo di canone occidentale e a rivendicare un linguaggio locale, legato all’artigianato, nell’ambito del design, puntualizza ancora Luigia Lonardelli. Thukral & Tagra sono personalità poliedriche: sono editori, si dedicano alla pratica sociale, sono anche dei pittori. Lo studio Raw Material in questo momento sta lavorando tantissimo sul design d’interni riprendendo alcuni materiali considerati di scarto e rivendicandone la loro nobiltà. La Chanakya School è molto nota in Europa anche nel settore del luxury ma in questa occasione ho voluto ci fossero le loro opere, non quelle prodotte per altri. Infine abbiamo Asim Waqif, uno degli architetti più importanti in questo momento che si dedica alla ricerca su materiali interessanti come le impalcature di bambù: una tecnica per poter lavorare in termini sostenibili.
Come reagisce il contesto in cui vi inserite dal punto di vista della risposta di pubblico e delle istituzioni che vi ospitano?
La presenza della Biennale è sempre salutata con molto entusiasmo e i contesti in cui lavoriamo sono estremamente diversificati. Cerchiamo di scegliere luoghi accessibili che coinvolgono comunità diverse e partenariati locali tra istituzioni. L’entusiasmo che riceviamo ci da la forza di continuare il viaggio.
Un viaggio che, per ampiezza di territori e di contesti incarna, la sfida della mission dell’Asac non solo in quanto centro di conservazione ma soprattutto di ricerca e produzione culturale che entro i primi di giugno 2026 troverà la sua nuova sede in Arsenale.