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Il pubblico non è un tabù

«L’idea che l’arte debba essere per pochi iniziati è una stupidata. La grandezza (se spiegata) arriva al cuore dell’uomo, nonostante il trionfo dell’iPhone tritatutto»

Nicolas Ballario

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È il secolo del sorpasso». È così che Aldo Cazzullo definisce il periodo in cui ci troviamo a vivere. Non so per quale motivo, questa parola fa paura. Forse perché evoca il tragico epilogo del capolavoro di Dino Risi. O forse perché in quest’epoca pazza a sorpassare è la Brexit, è Trump, è Le Pen. Sono i muri e la paura, l’odio e i nazionalismi.

Cazzullo è nato ad Alba (Cn) nel 1966 e su «La Stampa» prima e sul «Corriere della Sera» poi i grandi fatti che hanno segnato la nostra epoca li ha raccontati tutti: l’11 settembre, il G8 di Genova, gli assassinii di D’Antona e Biagi. Il suo esordio da scrittore è del 1996, quando con Il Mal Francese ha raccontato in tempi non sospetti le lente rivolte sociali della Francia di Chirac. Di libri ne ha scritti più di 20, trattando il caso Sofri e i mondiali del 2006, chiacchierando di vita e laicità e fede con Angelo Scola e raccontando le storie della prima guerra mondiale attraverso gli occhi e la voce dei protagonisti.

Certo si è anche divertito (immagino) a intervistare gente del calibro di Bill Gates e Keith Richards. Insomma, storie di grandi uomini che secondo lui diventeranno sempre più spesso storie di grandi donne, perché è questo il sorpasso che lui intende. Ci ha scritto il libro Le donne erediteranno la terra, edito da Mondadori: «Le donne prenderanno il potere e ne sono convinto perché in questo momento storico hanno qualcosa in più da dare».

Dire che le donne prenderanno il potere è anche un modo per dire loro di andarci piano, di rispettare i tempi e lasciar fare agli uomini ancora per un po’?
Assolutamente no. All’estero la Merkel è l’unico politico che ha contato negli ultimi 20 anni in Europa; nei 20 precedenti c’era la Thatcher. Adesso l’Inghilterra, in un momento di crisi, si è affidata a Theresa May. In America Hillary non ha vinto, ma ha preso 3 milioni di voti in più di Trump.

Come sempre il mondo è qualche passo avanti. O sbaglio?
Beh, l’Italia purtroppo resta un Paese maschilista. Ci sono ancora aziende che fanno firmare dimissioni in bianco alle giovani donne, da far scattare se restano incinte. Ci sono ancora le violenze. Ogni due giorni una donna viene uccisa da un uomo che non accetta un no o un basta, perché gli uomini hanno paura delle donne, della loro libertà e in particolare della libertà sessuale: si considerano proprietari del loro corpo. E questo però non è un problema delle donne soltanto, siamo noi uomini che dobbiamo isolare i violenti e farli sentire le nullità che sono. Ma l’ascesa è cominciata anche qui, ora le donne fanno mestieri che erano considerati da uomo. 

Il mondo avrebbe meno guai se a governarlo fossero le donne?
Da sempre la donna maneggia la vita e la morte nella sfera privata; ora è entrata nella sfera pubblica. È una fase chiave della storia: abbiamo capito che l’uomo e la terra non sono immortali e che dobbiamo prendercene cura. È un periodo terribile e sì, sono più tranquillo se una fase così è in mano alle donne. 

Nel mondo dell’arte sono moltissime le donne che attualmente ricoprono posizioni prestigiose. Non abbiamo mai avuto ministri dell’Economia donna, ma già due a capo del Ministero dei Beni culturali. Questo è perché la cultura è considerata come cosa di poco conto?
Forse sì, il Mibact è stato considerato secondario, ma non ha torto Franceschini quando dice che questo è anche un grande ministero economico. La cultura d’altronde nasce da investimenti economici. L’altro giorno ero a Montepulciano e ho trovato un piccolo paesino, semideserto, dove però vedi questa piazza con un palazzo e una chiesa mastodontici. L’Italia era la superpotenza dell’epoca e aveva la lungimiranza di capire che dal denaro può nascere la bellezza e che non ce ne dobbiamo vergognare. San Pietro non è stata eretta dal nulla. Michelangelo non lavorava gratis. Gli artisti hanno sempre avuto bisogno di committenti e questo nostro grande patrimonio, nato da investimenti del passato, andrebbe messo a frutto, valorizzato facendo appassionare italiani e stranieri. Guadagnare con l’arte non è mica uno scandalo. Non sopporto questi puristi da salotto, quelli del «che orrore il vil denaro» o i conservatori estremisti, che non vogliono che i nostri luoghi vivano.  

Che cosa pensa del gran rifiuto della giunta Raggi alle Olimpiadi a Roma?
Un gravissimo errore. Guardiamo quelle a Londra, sono state un grande successo. E non per il numero di visitatori durante le Olimpiadi, ma perché se fai il nuoto a Hyde Park, il tennis a Wimbledon, l’equitazione a Greenwich, il beach volley a Saint James’s Park, le regate sul Tamigi, le cose meravigliose delle città passano nel mondo e il risultato è che oggi Londra è la città che ha più visitatori, mentre Roma non è neanche tra le prime dieci. Fare le Olimpiadi a Roma avrebbe consentito alla città di avere una rete di trasporti moderna, mentre ora la società che deve ampliare la rete metropolitana viene messa in liquidazione. 

A Londra gran parte dei musei è a ingresso gratuito
Io posso capire che il Colosseo per andare avanti abbia bisogno di un biglietto a pagamento, ma devo dire che a me piace l’idea di andare alla National Gallery ed entrare liberamente. Lì è evidente lo scopo con cui l’apparato museale è nato: Londra, capitale dell’Impero, si propone verso la fine dell’800 di portare lì la sintesi del mondo. Allora il Natura History Museum con i dinosauri, il Victoria & Albert Museum con il chiostro medievale, tutta la grande cultura fiamminga e rinascimentale alla National Gallery, i fregi del Partenone, ma anche i leoni assiri al British Museum. Gli ingressi gratuiti hanno il sapore della propaganda, ma questo non è sbagliato.

Ma così non si rischia di svendere la cultura, di farla diventare appannaggio di chiunque, anche di chi se ne frega?
Ma no, questa idea che l’arte deve essere per pochi iniziati è una stupidata. Certo anche a me danno fastidio le scolaresche rumorose e che non capiscono nulla, ma è chiaro che questi ragazzi li devi preparare, gli devi spiegare, altrimenti è inevitabile che se ne freghino. Se gli fai scoprire che Dante e Giotto erano amici, che Giotto ha fatto il ritratto a Dante e che Dante cita Giotto nella Divina Commedia; se gli spieghi che Michelangelo era rivale di Raffaello, che lo temeva e aiutava il suo amico, forse amante, Sebastiano del Piombo; oppure se gli fai notare che il Nicodemo della Deposizione di Caravaggio raffigura lo stesso Michelangelo, ammirato e idolatrato come un gigante da Caravaggio, vedrai che questi ragazzi si appassioneranno. E sa perché? Perché la grandezza è qualcosa che arriva al cuore dell’uomo. 

Quella di tenere lontana la gente è la regina delle accuse mosse all’arte contemporanea.
Devo constatare che l’arte, che da tempo ha divorziato dalla bellezza, oggi ha divorziato anche dalla vita. Difficilmente l’arte contemporanea riesce a trasmettere un’emozione e ancora più difficilmente riesce a rivolgersi al grande pubblico. In Italia l’arte ha sempre abitato la nostra vita, le nostre piazze. Ci raccontava quali erano i nostri valori, le nostre speranze. Questo oggi non succede più. 

Di chi è la colpa?
Non sono mai girati così tanti soldi come in questo momento nell’arte. Però la gente ne è lontana. Anche sul vostro autorevolissimo «Il Giornale dell’Arte» ho letto fior di critici spiegare l’ignoranza dell’uomo della strada. Ma se questa gente non ha capito, la colpa non è loro, la colpa è del critico. È dell’artista. Ricordo che una volta Montanelli scrisse un articolo un po’ difficile e un lettore gli scrisse: «Io non ho capito». Montanelli gli rispose che era un ignorante e si sentì ribattere giustamente: «Se io non ho capito quello che scrive, l’ignorante è lei». 

Dice che l’arte contemporanea è lontana dalla gente, ma due anni fa la mostra di Jeff Koons al Pompidou ha segnato il record di 700mila visitatori. Al MoMA per fissare negli occhi Marina Abramovic si sono messe in coda 850mila persone.
Solo perché la gente vuole dire di esserci stata. È la ressa per fare il selfie col calciatore. Nel narcisismo di massa della rivoluzione digitale c’è anche spazio per l’arte contemporanea, che è un giro ristretto di pochi collezionisti, che comprano da pochi galleristi o case d’asta e decidono quale artista deve valere milioni. Intendiamoci, non ho nulla contro il fatto che l’arte sia un business, ma non mi piace che sia fine a se stesso. Non soldi che servono per fare arte, ma arte che serve per fare soldi. 

Quindi Koons, Hirst e compagnia bella sono bocciati?
Quando vedo i palloni da basket di Jeff Koons, francamente non solo non provo emozioni, ma non provo neanche curiosità intellettuale.

C’è qualche artista contemporaneo che le interessa?
Ai Weiwei. Senza la rete non ci sarebbero Trump e Grillo, ma nemmeno Ai Weiwei, che sarebbe stato solo uno dei tanti dissidenti che entrava e usciva di galera. Questo mi affascina, è incredibile. Quando ero ragazzo io, se fermavi qualcuno per strada e gli chiedevi il nome di un cinese, chiunque rispondeva Mao. Oggi se fermi qualcuno per strada e gli chiedi il nome di un cinese, in molti ti diranno Ai Weiwei. Segno che ha qualcosa da dire. 

E i giornali italiani in tutto questo come si collocano? La terza pagina era storicamente quella dedicata alla cultura nei grandi quotidiani, ma è una tradizione tramontata. Non interessa più?
Gli spazi interessanti nei quotidiani non mancano. Prenda Gnoli su «la Repubblica», che spesso intervista artisti o critici, o il successo clamoroso di «La Lettura» del «Corriere della Sera». È sinonimo del fatto che il pubblico è interessato. 

Si diverte ancora a fare il suo mestiere?
Moltissimo. Perché è un mestiere che coincide con la vita. In questo momento noi due stiamo lavorando, ma stiamo anche vivendo. L’importante è fare il giornalista in mezzo alle persone, vivendo la vita degli altri. Purtroppo però sta crescendo una generazione convinta che i confini del mondo coincidano con i confini della loro testa. Dobbiamo coinvolgerli di più: abbiamo troppi pochi giovani nel giornalismo italiano. 

È molto complicato campare di giornalismo per un giovane d’oggi.
L’iPhone comprende secoli di civiltà, li distrugge, ne fa coriandoli e li getta in aria: giornali, libri, cinema, televisione, musica, opera. Tutto quanto viene fatto a brandelli qua dentro. Un ragazzo è difficile che segua un’opera che dura tre ore, un film che ne dura due, che legga un libro di molte pagine. Si annoia, è troppo abituato al ritmo sincopato di WhatsApp e YouTube. E da questo deriva la crisi dell’industria culturale: i giovani d’oggi pagano uno spritz 6 euro senza battere ciglio, ma nessuno è più disposto a comprare un biglietto del teatro o un giornale. 

Aspetti aspetti… Se uno non segue l’arte è colpa dei critici e degli artisti lontani dalla gente, mentre se uno non compra un giornale la colpa è del pubblico? E i giornalisti?
Obiezione corretta! Mettiamola così: non c’è mai un solo colpevole. 

Assolve la categoria?
I giornalisti non stanno simpatici alla gente e non si stanno simpatici nemmeno tra loro. Siccome alcuni di noi additano i colleghi come complici della casta e se stessi come gli unici duri e puri che le cantano chiare, non voglio contribuire a sparare sulla Croce Rossa.

Nicolas Ballario, 07 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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