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Rossella Farinotti
Leggi i suoi articoliNon c’è niente di più rumoroso di un sussurro, ha esordito la presidente della fondazione Serralves in Portogallo, Isabel Pires de Lima. La fondazione d’arte più bella del Portogallo. Un sussurro, infatti, solitamente rompe il silenzio. Le opere che Maurizio Cattelan ha installato all’interno della Villa Serralves raccontano storie che sussurrano, rivelando diversi immaginari. Per un artista come Cattelan ormai potrebbe bastare l’impatto visivo. Ma non bisogna accontentarsi. L’arte non deve farlo. È necessario pensare, raccogliere, non dare nulla per scontato. Grazie a questa mostra voglio porre, dunque, una domanda. Cattelan lo conosciamo tutti (forse), ma conosciamo le sue opere? Il pubblico è consapevole di cosa rappresentino?
“Hitler” (Him, 2001) a Serralves è allestito come deve essere: è installato all’interno della cappella della villa, il visitatore approccia questa scultura dalle sue spalle, avvicinandosi a una figura inginocchiata dalle sembianze di un bambino, ma vestito da adulto. È obbligato a girarsi e a guardarlo dritto in volto. Qui scatta un processo di risveglio cognitivo ed emozionale. Si è di fronte al male e lo si guarda dritto negli occhi. Il volto di Hitler ha lo sguardo verso l’alto, è laterale. La paura, il terrore, lo stupore, il dramma: stiamo, forse, guardando la storia. Una storia che evade lo sguardo, non affronta il visitatore. Questa è una delle possibili chiavi di lettura.
Di nuovo, quanto si conoscono queste opere?
Una volta varcata la porta della villa il percorso presenta, in ogni stanza o salone, dei momenti narrativi creati da lavori importanti, tutti iconici. A Serralves sono infatti presenti diverse installazioni e sculture rare nella produzione (controllata) di Cattelan, tra cui scovare, oltre alla sua tangibile poetica, citazioni e tributi a chi è stato parte del suo percorso lavorativo, da Joseph Beuys a Walt Disney, da Kubrick a Lucio… Fontana. Tra le opere solitamente meno viste (se non su pubblicazioni) dell’artista: Not Afraid of Love (2000), l’elefante con il lenzuolo da cui si intravedono i grandi occhi cattivi. “C’è un elefante nella stanza” è il modo di dire quando nessuno dice. Una verità così chiara, talmente palese, da non avere il coraggio di darle una forma. Per questo il grande animale, coperto da un lenzuolo convinto, come un bambino, di non essere visto, ci guarda arrabbiato con gli occhi vitrei? Si, perché non stiamo parlando di lui. Ancora una volta sono i fatti storici e umani che ignoriamo. Può essere. Si tratta di una verità che non dichiariamo? Probabilmente si. Untitled (1997), lo struzzo con la testa infilata nel parquet, spaccato, da cui sbucano i trucioli di legno: siamo ancora noi, gli umani, che ci nascondiamo fingendo che ciò che avviene al di fuori del contesto personale non sia di nostra competenza, che non esista. Che vergogna. Ma c’è un suono che richiama la coscienza, che fa guardare in alto. È il suono che proviene da Untitled (2003), il tamburino. Per la prima volta questa raffigurazione di un bambino che, a cadenza ripetuta, suona un tamburo di latta, si rivede nello stesso percorso insieme a La Nona Ora (1999), il padre di tutti che sempre giace sopra un tappeto rosso e che soccombe (o si rialza grazie alla ferula, il bastone papale, simbolo di fede e di forza) sotto a un meteorite, e con Untitled (2000), la donna nella cassa che richiama l’ultimo scatto di Francesca Woodman, che l’artista qui ribalta, mostrandoci il soggetto che ci da, ancora, le spalle. Era dai tempi della toccante mostra presso la Sala delle Cariatidi di Milano nel 2010 che queste tre opere non dialogavano nello stesso contesto. Un altro tocco speciale di Sussurro. Come, ritornando verso la parte inziale del percorso espositivo, quel battito forte che nasce nel salone dove sono disposte le sculture in marmo di Carrara che formano l’opera All (2007). Si tratta di nove corpi umani, si intravedono dalle forme sotto ai lenzuoli. Sono dei cadaveri coperti. Questi corpi sono posti di fronte a un muro dorato, barocco, specchiante. Questa ricca parete è, però, costellata da enormi fori di proiettile. Un richiamo chiarissimo alla morte. E alla società attuale e violenta. Le vittime giacciono ai nostri piedi. I buchi sono ben visibili alle pareti, ma il gesto naturale, una volta li di fronte, è quello di specchiarsi, di riflettere la propria figura, il proprio ego che vince sul dramma e sulla storia. La morte, del resto, è un tema ricorrente in molte opere di Maurizio Cattelan. Lo si è letto un po’ dappertutto. Dalla sua storia personale - si dice che da giovane, a Padova, abbia lavorato in un obitorio -, fino alla sua scrupolosa osservazione dei fatti umani e politici. La bomba di via Palestro a Milano con le macerie del PAC; il suo doppio, qui in mostra, vispo e disteso in un lettino di legno, quello dei funerali, agghindato proprio per il momento della veglia; gli animali imbalsamati; i dittatori cattivi; una donna appesa; un senzatetto a cui nessuno presta attenzione, a Serralves posizionato all’entrata laterale della cappella.
Questa mostra di capolavori cattelaniani è una messa in scena umana, politica, sociale ed estetica che si sviluppa di stanza in stanza, riabitando le sale della villa attraverso racconti solenni, reali e surreali, come da politica dell’artista. Si tratta di una raccolta di immagini realizzate da Maurizio Cattelan dagli anni novanta ad oggi, che si riversano dentro e fuori gli spazi. Anche con tocchi naturalmente ironici (seppur drammatici, di fatto, nei contenuti) come per il piccolo, delizioso, Bidibidobidiboo (1996), Mini-Me, osservatore dall’alto di uno stipite di una porta, o Daddy, Daddy (2008) da scovare nel selvatico parco di Fondazione Serralves, nel mezzo di un grande stagno, rigorosamente a testa e pancia in giù, perché non più vivo. Lo scoiattolino che si è sparato alla testa, il Pinocchio morto nello stagno, sono episodi raccapriccianti che fondano le radici tratte da un immaginario da favola, dove il gioco e la spensieratezza avrebbero dovuto essere un leit motiv accompagnatore. Un sussurro, invece, risveglia gli animi e fa capire che, in fondo, non è così, ma che l’ironia e l’analisi dei sentimenti sono modi per superare gli ostacoli, che tanto esistono. I rimandi ad altre sue mostre sono forti, oltre alla già citata esposizione milanese che accompagnò lo svelamento dell’opera pubblica L.O.V.E. nel 2010 - scultura che qui troviamo per metà ad accogliere il pubblico sullo scalone che porta ai giardini del palazzo -; ci sono riferimenti alla mostra Victory is not an option (2019), presso Blenheim Palace, l’ex dimora di sir Winston Churchill vicino a Oxford, dove compariva anche Novecento (1997), l’iconico cavallo dalle zampe allungate appeso in uno dei saloni del Castello di Rivoli, qui a Serralves protagonista centrale della mostra. Cosa rappresenta questo elegante animale, deformato in una sua parte importante, quella che lo fa stare in piedi? È il simbolo del secolo passato, appesantito, che pende sulle nostre teste. È l’animale che, da Paolo Uccello a Curzio Malaparte, rappresenta la potenza e la forza maschile, qui privato dei suoi valori. Sono tutti immaginari che richiamano paragoni ed equilibri che, in una personale così corposa, diventano naturali, se non necessari. Del resto ogni opera è una rappresentazione di qualcos’altro. Cattelan mette in scena fughe, emancipazioni, astrazioni, etiche svanite, feticismi, inibizioni e rimozioni dell’essere umano e del suo vissuto. Lo fa con una solennità che può essere giudicata, ma, fuor di dubbio, che è più utile di un lieve rumore.