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Ben Luke
Leggi i suoi articoliA marzo, presentando i suoi progetti per la 56ma Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, il curatore nigeriano Okwui Enwezor (1963) ha esordito citando l’interpretazione data da Walter Benjamin a un dipinto di Paul Klee, «Angelus Novus» del 1920. Il filosofo tedesco, che scriveva nel 1940 mentre cercava di sfuggire alla Gestapo, individuava nell’immagine di Klee l’angelo della storia, intento a contemplare il passato come «una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi», e tuttavia spinta nel futuro dalla «tempesta che chiamiamo progresso».
Oggi, Enwezor dichiara di vedere «un paesaggio globale ancora una volta frantumato e nel caos», e di conseguenza «All The World’s Futures», la mostra centrale allestita ai Giardini di Castello e all’Arsenale, fa di questa Biennale di Venezia la più orientata verso la politica da molti anni a questa parte. Al centro c’è l’«Arena», un auditorium progettato dall’architetto David Adjaye nel Padiglione Centrale ai Giardini. Qui, alcuni lettori diretti dal regista britannico Isaac Julien leggeranno ad alta voce l’edizione integrale in quattro volumi del Capitale di Marx.
Le letture del Capitale sono uno dei tre «filtri», così li definisce Enwezor, inglobati nel concetto principale; gli altri sono «Vitalità: sulla durata epica», incentrata su performance, film, canzoni e discussioni, di modo che, spiega il curatore, la mostra sia «un evento dal vivo continuo, in evoluzione e incessante», e «Il giardino del disordine» che utilizza i Giardini della Biennale con i padiglioni nazionali come metafora attraverso la quale esplorare «lo stato delle cose». Ma tutto questo, puntualizza Enwezor, non si tradurrà in un’esposizione che mette in secondo piano il potere della visione per privilegiare la speculazione politica.
A sostenere questa visione sono i lavori di molti dei 136 artisti e dei collettivi presenti nella sua mostra (di questi, 88 sono alla Biennale per la prima volta), tra cui maestri scomparsi come Walker Evans e Robert Smithson, personalità riconosciute come Georg Baselitz e Marlene Dumas, e una vasta e disparata gamma di artisti da ogni parte del globo, dall’indigena australiana Emily Kame Kngwarreye, al collettivo siriano Abounaddara. «Esiste da sempre un malinteso, spiega Enwezor, come se ciò che è sociopolitico non possa avere autorità estetica, non possa essere esperienziale e potente, coinvolgente e duraturo. Per quanto mi riguarda, non voglio essere complice di una mostra che evita domande che a mio avviso devono essere poste».
Perché il suo testo introduttivo alla Biennale si apre con una citazione di Walter Benjamin che mette in rapporto diretto le arti visive e i fatti del mondo?
Benjamin ha sempre pensato visivamente, per immagini, ed era molto acuto nel leggere il rapporto tra immagine ed elemento storico e, naturalmente, politico. E quella riflessione, nel pieno di un momento di precarietà, fragilità e incompiutezza paragonabile (anche se non è necessariamente uguale) a quello che attualmente stiamo attraversando, ci ricorda questa idea di transizione permanente; è come se fossimo condannati a una serie di incompiutezze e che è così che il nuovo si manifesta nel mondo, attraverso l’incompiutezza.
Per descrivere la sua mostra lei ha usato l’espressione «parlamento delle forme». Che cosa intende dire?
Per me vuol dire radunarsi e unirsi per pensare al nostro lavoro comune, e riflettere sul fatto che l’arte non è qualcosa di rarefatto e separato da questo insieme di rapporti. Così il «parlamento delle forme» è un modo per ridiscutere la vitalità, l’importanza e la necessità dell’arte nelle nostre vite, nella nostra cultura comune, in un momento in cui gli oggetti storici e artistici sono stati distrutti. E vuol dire anche richiamare l’attenzione su un’altra cosa che Benjamin ha detto, che non esiste una sola immagine di una civiltà che non sia in sé un’immagine di barbarie. Tutti vediamo quanto succede in Iraq e abbiamo assistito alla distruzione dei Buddha di Bamyian e, per quanto queste cose possano dare fastidio, penso anche alla disputa tra la Grecia e il British Museum per i Marmi Elgin... Sì, nel museo li si conserva, ma lontano dal loro contesto, è una forma di distruzione. Il «parlamento delle forme» allora è questa conversazione tra forme e pratiche. Uno dei leitmotiv nella mostra è la ricorrenza delle parole, pronunciate, lette, recitate, cantate, dipinte o disegnate.
Ci saranno letture integrali del «Capitale». Perché le considera così importanti?
Potrebbe anche rivelarsi un disastro, non lo so. Un conto è proporre queste letture come un’azione, un altro è realizzarle in maniera impeccabile. Ma non è questo il punto. Il punto è suggerire un modo grazie al quale pensare alla struttura della mostra. Io non ho un tema, ho però, come si capisce dal titolo della mostra, una dichiarazione d’intenti. E tramite questa dichiarazione d’intenti si crea una struttura e questa struttura è una serie di filtri che si possono usare per percepire, o per scansionare, se si preferisce, il corpo dell’esposizione. Il motivo per cui Il Capitale entra in una risonanza così profonda è perché tutte queste domande aumentano il nostro dramma contemporaneo. Volevo un oggetto che, per la sua difficoltà, per la sua natura controversa, per il modo stesso in cui il libro e l’opera dell’autore sono stati impiegati in strutture ideologiche differenti, potesse creare un dramma forte dentro la mostra. Alla fine del mio testo, concludo con una citazione di Louis Althusser, che dice di leggere Il Capitale come se fosse la prima volta. E nell’Arena sarà davvero così: molti non l’hanno mia letto. Non pretendo di essere un esperto, ma l’Arena è un’azione forte, è un modo per offrire un Gps per l’operazione stessa della mostra.
L’anacronismo dei padiglioni nazionali in passato sembra essere stato percepito come un ostacolo dai curatori. Lei invece sembra averlo abbracciato in pieno. Perché?
Ci sono ovvie ragioni per cui in passato i curatori hanno avuto sentimenti contrastanti nei confronti dei padiglioni nazionali. In altre biennali l’assenza dei padiglioni nazionali non mi dispiace, ma a Venezia non avrebbe senso, semplicemente perché è nata così, è stata costruita così, mentre le altre biennali hanno cercato di emulare Venezia, senza apportare nulla di originale. Ecco perché la Biennale attrae così tanti Paesi, perché parla alle fantasie e ai desideri che tanti di noi nutrono in relazione al nostro posto nel mondo. E io la condivido perché ha un enorme valore di natura intellettuale e storica.
Che cosa si aspetta da un visitatore della sua Biennale?
Nelle intenzioni c’è l’incompletezza; non esiste un pacchetto da dispensare a tutti nello stesso identico modo. Bisogna resistere all’omogeneizzazione e alla monotonia delle cose tutte uguali. E comunque i modi di vedere, le inclinazioni, sono molto diversi da persona a persona. Ci sono persone che staranno a Venezia un giorno, altre che si fermeranno per tre, altre ancora solo per qualche ora. Visitatori diversi che ne ricaveranno cose diverse; demografie diverse vedranno cose diverse. Ho detto spesso che la Biennale di Venezia non si vede, la Biennale di Venezia si scansiona. Dato che c’è così tanto da vedere, lo si scansiona.
La mostra di arti visive della Biennale sembra essere sempre più un terreno per le arti in generale...
Le arti antiche erano pressappoco un gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale; la forma, o il medium, d’arte autonomi sono un’invenzione recente. Adesso con la performance, con l’idea della durata e del tempo nelle esposizioni, e con la coreografia, stiamo tornando al punto di partenza e rientrando in quello spazio. Il «parlamento delle forme» può avere un senso e io penso che oggi il pubblico sia incredibilmente ricettivo su questo tema. È per questo che sempre più spesso si assiste alla confluenza di pratiche che si raggruppano e coesistono.
Nel 2002 lei ha curato Documenta. Che differenza c’è con la Biennale di Venezia?
Documenta è molto più meditativa. Il curatore ha a disposizione quattro anni e un’opportunità incredibile di sfumature. A Venezia invece bisogna partire in quarta. L’altra differenza tra Documenta e Biennale è la differenza tra Venezia e Kassel. A Venezia c’è una fortissima concentrazione di arte, si lavora davvero dentro la tradizione, non è una tabula rasa. Con questo non voglio dire che Kassel lo sia, ma potrebbe sembrarlo. Perciò si lavora con un’improvvisa consapevolezza del potere visivo e con intensità; qui a Venezia si viene non per insegnare alla gente qualcosa sulla radicalità dell’arte, perché la radicalità ne fa già parte in pieno. E allora si deve prendere tutto questo, metterlo da parte e dire «Farò la mia mostra a modo mio». Ma Venezia è anche un po’ diversa semplicemente per l’arco temporale in cui la si fa, per cui si può essere molto più reattivi al presente così come a Documenta si può essere molto più «diagnostici», perché c’è più tempo.
In un’intervista lei ha lasciato intendere che dopo Venezia non avrebbe più fatto un’altra biennale. La pensa ancora così?
Be’, mai dire mai. Però è sempre un bene uscire di scena alla grande. Non si può fare la Biennale di Venezia e poi andare a fare... che so... (ride, Ndr). Manterrò quella promessa.
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