Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Elisabetta Matteucci
Leggi i suoi articoliLa domanda se il talento sia geneticamente tracciabile e trasmissibile ha sempre affascinato. Dietro questo sostantivo si cela un concetto vago e al tempo stesso complesso con cui si indica un’evidente facilità di apprendimento in un certo ambito, tale da favorire una spiccata predisposizione. Una combinazione di abilità cognitive, fisiche o emotive in grado di produrre risultati eccezionali. Ma attenzione: se è vero che molte capacità hanno una componente ereditaria, tuttavia nessun gene isolato è sufficiente a determinare un talento. Un bambino può ereditare predisposizioni da genitori talentuosi, ma solo questo non garantisce che a sua volta lo diventi. E allora, quando il talento diviene realmente trasmissibile? In primis l’inclinazione deve svilupparsi in un contesto adeguato e favorevole, cioè animato da figure di riferimento come la famiglia, gli insegnanti o mentori che, comprendendone la portata, s’impegnino a valorizzarlo. Al contempo, nello stesso ambiente, quell’attitudine deve poter cogliere tutte le possibili opportunità di apprendimento e di pratica. In buona sostanza, perché emerga è necessario che fattori come la predisposizione unita all’educazione, all’ambiente e alla motivazione personale si incontrino.
Il costituirsi di gruppi familiari in cui, parallelamente ai vincoli di parentela, si trasmetteva con pari intensità l’esperienza acquisita in una determinata professione artistica non è stato un fenomeno esclusivamente ottocentesco, ma ha contraddistinto l’intero percorso evolutivo storico artistico italiano. La famosa tavola degli Uffizi, tradizionalmente attribuita a Domenico di Michelino dove sono ritratti i volti di Taddeo, Gaddo e Agnolo Gaddi (secondo alcuni una vera e propria insegna di bottega) costituisce una delle prime testimonianze di dinastia pittorica che ha sigillato con il proprio nome un intero periodo di storia dell’arte. E in passato, pensiamo alle esperienze dei Bellini, dei Bassano, dei Campi, dei Tiepolo e dei Guardi, per citare solo alcuni casi, una volta presa consapevolezza della predisposizione, per il giovane figlio, aspirante artista, iniziava nella bottega paterna un iter educativo scandito da regole tecniche e manualità artigianali assimilate con dedizione e religiosamente tramandate come precetti fondamentali.
Con gli inizi del XIX secolo, al tirocinio nell’atelier si aggiunge la formazione nelle Accademie in modo da fornire all’allievo l’opportunità di approcci con il mondo dei collezionisti e dei mercanti. Tra le varie motivazioni che potevano indurre un giovane a sposare la causa artistica vi era, non ultima, quella economica. Le principali famiglie che in epoca granducale in Toscana percorsero questo indirizzo furono: Karol, Andrea e Karol Jr. Markò; Serafino e Felice De Tivoli; Giovanni e Telemaco Signorini; Adolfo, Angiolo e Lodovico Tommasi. Nei Ducati di Parma, Piacenza e Modena ecco Giacomo, Alfonso e Alfredo Savini, Antonio e Giovanni Boldini, mentre nel Regno delle Due Sicilie Domenico, Antonio, Gabriele, Raffaele, Gonsalvo e Achille Carelli; Gaetano, Giacinto, Ercole e Achille Gigante; Giuseppe, Filippo, Nicola e Francesco Paolo Palizzi.
In età romantica, il Regno Lombardo-Veneto godeva in misura maggiore rispetto agli altri stati preunitari di un alto livello sociale. Come già nella stagione neoclassica e illuminista a Milano proliferava un numero ragguardevole di mercanti e mecenati che insieme formavano una fascia elitaria estremamente sensibile a incentivare qualsiasi iniziativa a favore delle arti. Qui si registrava la maggior concentrazione di famiglie d’artisti come quelle a cui appartenevano Andrea e Andrea Jr. Appiani, Luigi e Carlo Ademollo, Giovanni, Angelo, Francesco e Amanzia Guérillot Inganni, Domenico e Gerolamo Induno, Eliseo e Paolo Sala e Giosuè, Mosè, Gianbattista e Regina Bianchi. E se Paolo e Giovanni Battista Caliari e Giovanni, Giuseppe e Carlo Canella rendevano lustro alla città di Verona, la continua riflessione su Venezia e i suoi dintorni costituì la chiave principale del successo di una famiglia la cui eco, destinata a durare sino al Novecento, avrebbe raggiunto un apprezzamento soprattutto da una clientela d’Oltremanica: i Ciardi.
«Al padre di Beppe Ciardi: senza di Lui, né luce, né bellezza, né gioie indimenticabili avrebbero allietato la mia vita». Con questa dedica, Emilia, moglie del pittore veneziano, chiudeva la raccolta di Pensieri (1942) rivolti al suocero Guglielmo in occasione del centenario della nascita. Da queste affettuose parole traspare un quadro domestico di armonica atmosfera che, in virtù di una reciproca corrispondenza d’intenti tra i suoi protagonisti, costituì uno degli esempi più riusciti di organizzazione artistica familiare ottocentesca. Vera figura di capo carismatico fu Guglielmo (Venezia, 1842-1917). La sua arte e quella dei figli Giuseppe, alias «Beppe» (Venezia, 1875-Quinto di Treviso, 1932), ed Emma (Venezia 1879-1933) contribuì ad aggiornare in laguna il vedutismo di tradizione settecentesca secondo le moderne concezioni del paesaggismo europeo. Dotato di una personalità volitiva, Guglielmo non cedette all’allettamento del genere aneddotico come invece accadde ai suoi coetanei Eugenio De Blaas, Egisto Lancerotto, Noè Bordignon e Luigi Da Rios. La risonanza del nuovo credo realista, perseguito dalla scuola toscana intorno alla metà degli anni Sessanta, giunse anche a Venezia dove egli fu tra i primi a raccoglierne la portata innovativa.
Il tramite per un contatto diretto con quell’ambiente così fertile d’idee fu Federico Zandomeneghi, personalità in quel momento impegnata nello stesso ordine di ricerche degli artisti toscani. «(…) Ti presento il Sig. Ciardi Guglielmo pittore veneziano che intraprende un viaggio artistico istruttivo e desidera conoscere il buono ed il meglio di quella tappa che si chiama Firenze. Non ho trovato chi più di te sia al caso di apprezzare le sue qualità artistiche e dirigerlo in tutto ciò che avrà bisogno specialmente in rapporto d’arte conoscendo la tua abilità le tue massime e la tua educazione letteraria. Non aggiungo altre parole in proposito di questo mio amico perché si farà conoscere ed apprezzare ben presto da sé stesso», scriveva Zandomeneghi preconizzando all’amico Telemaco Signorini, per quel giovane giunto a Firenze intorno al 1868 e tanto desideroso di apprendere, un sicuro avvenire.
La fama di Guglielmo Ciardi crebbe parallelamente con il suo iperattivismo espositivo che ne favorì la conoscenza anche fuori dai confini nazionali. Dal debutto nel 1868 alla rassegna di Brera con il quadro «Un pascolo sul Sile» alle costanti presenze alle rassegne annuali di Firenze, Genova, Napoli, Roma e Torino, la sua carriera fu un continuo susseguirsi di affermazioni che gli valsero l’assunzione di numerose cariche pubbliche. Nel 1887, anche sulla scia del successo riportato all’Esposizione Internazionale di Berlino con «Messidoro», fu nominato membro del Comitato Esecutivo dell’Esposizione Nazionale Artistica di Venezia, la premessa della futura Biennale. Con l’avvento della maturità la sua arte, indissolubilmente legata al proprio ambiente d’origine, dopo un’iniziale parentesi macchiaiola, si esplicò nella raffigurazione degli effetti pittoreschi degli edifici affacciati sulla laguna. L’opportunità di misurarsi in occasione delle Biennali veneziane del primo Novecento nei diversi aspetti moderni dell’arte europea provocò nel suo stile una metamorfosi radicale che si sintetizzò sostanzialmente in una trasfigurazione degli elementi atmosferici resi non più nella loro effettiva realtà ma attraverso visioni essenziali espresse con tonalità grigie e madreperlacee.
Rivelandosi sempre più un avveduto promotore di sé stesso, all’interno della famiglia Guglielmo fondò una vera e propria bottega composta dai figli Beppe ed Emma, nati dalle nozze con Linda Locatelli, anch’essa «figlia d’arte». La perfetta sintonia che doveva vigere all’interno di quel felice ménage vide partecipare l’intero gruppo Ciardi all’Esposizione di Milano del 1906 inaugurata per l’apertura del valico del Sempione. Sotto la rappresentanza del padre, in un’unica sala furono riunite 32 opere, tredici delle quali di Beppe e otto della giovanissima Emma. L’inequivocabile incidenza dello stile paterno fu sottolineata criticamente da Ugo Ojetti nella recensione sulla mostra in cui rilevava la mancanza nei due giovani di un personale linguaggio espressivo. Ma all’analisi dell’autorevole critico erano sfuggiti gli elementi caratterizzanti sui quali questi ultimi avrebbero fondato l’originalità della propria visione. Mentre per Beppe le suggestioni del «mito nordico» significavano un allineamento alle tendenze simboliste in quel momento più avanzate in Europa, per Emma il distacco dalla tradizione realista si manifestava con la reinterpretazione di un altro «mito» legato alla propria cultura d’origine: quello di Venezia. Una Venezia idealizzata in una cornice di fasti settecenteschi e di minuetti longhiani ma rivitalizzata dalla vibrazione impressionista. I soggetti da lei preferiti furono scene in costume immerse in vere scenografie naturali, evocanti atmosfere da sogno che guardavano ad Antoine Watteau e a Jean-Honoré Fragonard.
Altri articoli dell'autore
Quando ha avuto inizio in Italia il processo? Quali fattori lo hanno determinato? Quali sono stati i primi musei ad avere una sezione dedicata all’Ottocento?
Arriva a Parigi una grande monografica dedicata a Troubetzkoy, l’artista italiano appartenente a una famiglia aristocratica trasferitasi in Lombardia a metà Ottocento: il principe interprete della natura
A Villa Mimbelli una retrospettiva a cura di Vincenzo Farinella celebra il bicentenario di un «uomo del ’48» la cui eredità si estende a molti artisti cruciali del primo Novecento italiano
A Palazzo Cucchiari una mostra esplora l’inscindibile legame tra arte e svago nel periodo compreso tra la corrente realista e le due guerre: «Tra nostalgie del paradiso perduto e voglia di evasione, si fa strada nelle poetiche degli artisti il rimpianto per la condizione dell’infanzia, l’età dell’innocenza, come dovrebbe essere l’età dei giochi», spiega il curatore Massimo Bertozzi



