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Particolari della sala tappezzata ex novo di velluto giardino con cornucopie, Varsavia (Pl), Musei del Palazzo di Willanow, Appartamenti Reali

Foto: Franz J. Ippoldt

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Particolari della sala tappezzata ex novo di velluto giardino con cornucopie, Varsavia (Pl), Musei del Palazzo di Willanow, Appartamenti Reali

Foto: Franz J. Ippoldt

I santi più eleganti? I valdostani in velluto giardino

A fine Seicento questo tessuto destinato a re e nobili è diventato l’elemento distintivo dei paramenti di san Grato e sant’Orso. Un restauro pittorico e un rifacimento tessile mettono in nuova luce un patrimonio prezioso che ad Aosta si è salvato grazie all’esonero dall’applicazione della normativa tridentina sulla riduzione dei colori

Anna Maria Colombo

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Il patrimonio di vesti liturgiche della Valle d’Aosta, nelle chiese cittadine come in quelle sparse sul territorio, ha la caratteristica unica di annoverare un cospicuo numero di manufatti confezionati in velluto giardino, il più eclatante fra i tessuti barocchi. 

Raffigurante composizioni floreali policrome e di grandi dimensioni, sotto il profilo tecnico è un velluto cesellato, definizione dovuta al fatto che lo spessore vellutato, detto pelo (formato da due effetti, in seta riccia e in seta tagliata) è riservato al disegno, il quale «sbalza» di due altezze dal fondo che resta piatto. Nel velluto giardino il fondo ha inoltre la particolarità di trattenere delle laminette argentate o dorate, così da incrementare l’aspetto già lucente dei fili serici.

Realizzato da maestranze altamente specializzate, al servizio di manifatture seriche di provata tradizione fra cui eccelleva la genovese, la fabbricazione di un velluto giardino necessitava di un particolare tipo di telaio al tiro. Nel XIX secolo, la componente di questo telaio destinata alla formazione del disegno verrà sostituita da un sistema di schede perforate: la macchina Jacquard.

Pensato per rivestire le pareti di palazzi reali e nobiliari, il velluto giardino risulta sacrificato dai tagli usati nella sartoria ecclesiastica, tranne nel caso si confezioni un piviale. La forma a semicerchio del manto (la parte principale del piviale, le altre sono lo scudo e lo stolone) richiede la giunzione di ben cinque teli, quattro interi e uno diviso a metà posto alle estremità. Una volta che il paramento è, il disegno diviene meno leggibile per il formarsi delle pieghe, ma il gioco del panneggio pone in risalto l’aspetto tridimensionale del tessuto, il suo rilievo. In breve, il contenuto decorativo di un piviale confezionato in velluto giardino risulta così forte e manifesto da irrompere sul finire del Seicento nell’iconografia dei due santi patroni di Aosta, san Grato e sant’Orso, fino a quel momento raffigurati con sobrie vesti ecclesiastiche, da vescovo l’uno, da priore l’altro.

I due luoghi di fede più antichi e insigni della città, la Cattedrale di Santa Maria e la Collegiata dei Santi Pietro e Orso, conservano ciascuno un dipinto in cui le figure, di san Grato nel primo caso e di sant’Orso nel secondo, si ammantano della più moderna, colorata e lucente delle stoffe. Come mostra l’opera appartenente alla Collegiata, alla quale un recente restauro ha ridato l’originaria cromia.

Pittore piemontese (?), «Sant’Orso», fine del XVII sec., Aosta, Collegiata dei Santi Pietro e Orso. Foto: Anna Maria Colombo

Nella raffigurazione pittorica il piviale, che il santo indossa sopra un candido camice stretto da un cingolo, appare impreziosito da una fibbia-gioiello, bordato da un gallone dorato e infine foderato in seta rossa. L’aulicità del paramento, per contrasto, fa risaltare la figura di sant’Orso, a cui l’ignoto pittore ha saputo conferire i tratti di una santità fatta di umiltà, pazienza e misericordia. Ben prima di san Francesco il popolare santo di Aosta incantava gli uccelli che, divenuti distintivi della sua immagine, qui gli si posano sulle spalle, come in un giardino.  

Al pittore, per poter riprodurre il tessuto, bastava aprire gli armadi da sacrestia destinati alla custodia delle vesti liturgiche, la cui cura, va detto, l’istituzione ecclesiastica ebbe sempre a cuore, in particolare durante la Riforma cattolica. In quei mobili di noce era riposto un ragguardevole patrimonio di paramenti sacri, e quelli confezionati in velluto giardino non erano che gli ultimi acquisti o doni di benefattori. 

Limitandoci ai soli piviali, e tralasciando le decine di paramenti completi di pianeta, dalmatiche, stole e manipoli, dagli elenchi inventariali si ricava che la Collegiata dei Santi Pietro e Orso, nell’ultimo quarto del XVII secolo, ne possedeva trentadue, mentre nella Cattedrale di Santa Maria, all’inizio del secolo successivo se ne contavano quaranta.

Dunque dotazioni quasi pari, capaci di consentire ai presbiteri delle due chiese di unirsi nella celebrazione di alcune solennità liturgiche dell’anno, secondo un ordine prestabilito denominato «mixtim»: un canonico della Cattedrale aveva alla propria sinistra un canonico della collegiata. Come avveniva nelle Processions générales, durante le quali si portavano in corteo, lungo le vie di Aosta, le reliquie dei due santi patroni.

Occorre ricordare che la Valle seguiva un proprio rito di origine franco-romana che, in virtù della sua stessa antichità, poté conservarsi nonostante la decisione del Concilio di Trento di limitare i particolarismi cultuali. Ciò esonerò la Chiesa valdostana dall’applicare la normativa tridentina che riduceva i colori a soli cinque (bianco, rosso, verde, viola, nero) e regolava il loro uso secondo il calendario liturgico. Tale consuetudine alla ricchezza cromatica (negli inventari si leggono nomi di colori quali giallo, arancione, oliva, muschio, fiordaliso, blu) potrebbe essere un motivo capace di spiegare l’adozione da parte del clero valdostano del più policromo, nonché costoso, dei velluti. 

Sette piviali (e relativi paramenti) confezionati in velluto giardino (quattro della Collegiata e tre della Cattedrale) sono giunti sino a noi, seppure aggiustati, a volte con inserzioni di stoffe incongrue. Uguali per tecnica costruttiva e per impostazione compositiva, si distinguono nelle soluzioni decorative che diventano sempre più auliche. Uno di questi piviali, purtroppo non in buono stato di conservazione, lo si può vedere, disteso entro una vetrina a semicerchio, nel Museo del Tesoro della Cattedrale di Santa Maria.

Piviale in velluto giardino con cornucopie, Manifattura italiana o francese, 1710-20, Aosta, Museo del Tesoro della Cattedrale di Santa Maria. Foto: Anna Maria Colombo

Il velluto impiegato si caratterizza per un disegno comprendente delle cornucopie. È un esemplare solenne che venne esposto alla Mostra del Barocco Piemontese, svoltasi a Torino nel 1963, con un’attribuzione di M. Viale Ferrero alla manifattura serica sabauda, l’Albergo di Virtù, e una datazione al principio del Settecento. Ma la fortuna del velluto giardino con cornucopie non finisce qui, in quanto comprende un importante e non comune rifacimento storico ad opera del tessitore di seta Franz J. Ippoldt, titolare dell’atelier di tessitura a mano Soierie des Fantasques.

Finalmente, nel concreto dei casi, osserviamo l’uso precipuo per cui il velluto giardino venne ideato. Il tessuto è stato riprodotto (1999 - 2010) al fine di sostituire, in due residenze principesche d’epoca barocca, l’originale compromesso dal trascorrere del tempo. Gli ambienti tappezzati ex novo sono l’alcova del Pagodemburg, nel parco del Castello di Nymphenburg, a Monaco di Baviera e una sala degli Appartamenti Reali, nel Palazzo di Willanow a Varsavia.

Nel nuovo velluto si ammirano la ricchezza floreale (narcisi, anemoni, iris, peonie e a coronamento una «fritillaria imperialis»), il rigoglio vegetativo e soprattutto il suo sorprendente cromatismo. In particolare crea stupore osservare come ciascuno dei cinque colori impiegati (verde, rosa-salmone, rosa-fucsia, cremisi e viola) appaia in due toni, chiaro e scuro, in virtù della doppia lavorazione del pelo del velluto, in seta riccia e in seta tagliata.

Velluto giardino con cornucopie, rifacimento storico di Franz J. Ippoldt. Foto: Franz J. Ippoldt

Come afferma lo stesso Ippoldt,  «all’inizio di ogni ricostruzione c’è l’analisi del documento tessile autentico». Oltre all’assunzione digitale del modulo decorativo, seguita dalla ridefinizione grafica dei suoi contorni (l’esemplare antico può essere consunto e deformato dall’uso) dall’originale è necessario ricavare le caratteristiche merceologiche dei materiali (filati serici e laminetta) e gli intrecci  producenti i diversi effetti (seta riccia e seta tagliata del pelo, fondo) i quali determineranno il montaggio del telaio.Va poi aggiunta la ricerca cromatica diretta a ottenere con tinture sintetiche quell’effetto di vibrazione del colore proprio degli esemplari antichi e derivante dall’impiego di coloranti ricavati da sostanze naturali. 

Scomparsa la filiera tessile dell’epoca preindustriale, per affrontare l’impresa di un rifacimento quanto più possibile vicino al modello, è indispensabile riunire in sé più competenze: del disegnatore, del tessitore, del meccanico, e la sensibilità di un tintore.

Un impegno particolare ha richiesto il colore dominante, il verde, che nel velluto originale mostrava una grande ricchezza di gradazioni. Al fine di ricrearla, i fili di seta sono stati tinti in tredici tipi di verde, ciascuno in due toni: dai verdi giallo, ai verdi lime, ai verdi abete, fino ai verdi petrolio e ai blu; dopodiché si è passati allo studio della loro distribuzione. Per gli altri colori è stato più semplice, i fili di seta di ciascuno di essi sono stati in tinti due toni. 

Tessitura del velluto: si osserva il colore in gradazione dei fili di seta e l’inserzione dei ferri per la formazione del pelo. Foto: Franz J. Ippoldt

Tessere a mano un velluto cesellato è un lavoro lento e meticoloso che richiede grande impegno e concentrazione. Il pelo del velluto, nei suoi due effetti di riccio e tagliato è creato da un ordito supplementare che si avvolge attorno a degli appositi ferri inseriti durante la tessitura. Per completare l’effetto riccio basterà sfilare il ferro, mentre per ottenere l’effetto tagliato occorrerà procedere alla resezione dei fili di seta per mezzo di una taglierina guidata da una scanalatura nel ferro.  

La commessa per il palazzo di Willanow è stata di 46 metri di velluto. Ogni giorno lavorativo, composto di otto ore, fruttava 35 centimetri di tessuto. Ogni giorno, il ritmo di tessitura doveva riprendere come il giorno prima, al fine di mantenere la regolarità dell’intreccio. «Tutta l’intelligenza possibile, tutto il gusto immaginabile di un disegnatore non lo condurranno mai a fare un bel velluto, se questo velluto non è fabbricato con le materie più adatte e con una manodopera perfetta». Così si legge in un manuale ad uso dei disegnatori di stoffe della metà del Settecento  (Joubert de l’Hiberderie, 1765).

Franz J. Ippoldt al lavoro: il telaio di legno della metà del XIX secolo monta una macchina Jacquard. Foto: Franz J. Ippoldt

Anna Maria Colombo, 02 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

I santi più eleganti? I valdostani in velluto giardino | Anna Maria Colombo

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