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Boris Mikhailov, «Red 1968-1975».

Courtesy Boris Mikhailov - Guido Costa Projects

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Boris Mikhailov, «Red 1968-1975».

Courtesy Boris Mikhailov - Guido Costa Projects

I mondi sommersi e le storie latenti di Boris Mikhailov

Nei due piani sotterranei dello Yermilov Centre di Kharkhiv in Ucraina l’artista ha inaugurato «Pair Skating», una mostra in forma di dialogo con Wolfgang Tillmans

Guido Costa

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Ci sono artisti che più invecchiano e più diventano bravi. Non succede spesso, specialmente se si è artisti famosi, dotati di uno stile unico e di un punto di vista innovativo e radicale. Se si è, insomma, dei maestri a tutti gli effetti. Boris Mikhailov, 87 anni tra pochi mesi, è uno di questi rari casi. 

Ci siamo visti recentemente nella sua casa di Berlino, città dove vive dalla metà degli anni ’90, e come al solito abbiamo discusso per ore di nuovi progetti, nuovi libri, di politica, di arte e di filosofia. Lo facciamo più volte l’anno ormai da decenni, utilizzando una sorta di lingua di mezzo fatta di inglese, russo e di tante immagini, nata da questa lunga consuetudine e dal tanto tempo passato assieme. Vita, moglie, musa e insostituibile collaboratrice di Boris, presenzia e modera la discussione senza mai dimenticare le regole della generosa ospitalità ucraina, fatta di tanti brindisi e cibo a volontà. 

Boris e Vita Mikhailov li ho conosciuti a Zurigo nel 1998 grazie a Walter Keller, editor della rivista «Parkett» e poi editore in proprio con Scalo Verlag, casa editrice mitica, tra le più influenti e innovative in ambito fotografico a cavallo degli anni 2000, oggi purtroppo scomparsa con la morte prematura del suo fondatore. Ricordo che Walter, che di Boris aveva appena pubblicato Unfinished Dissertation, mi mostrò con grande emozione alcune centinaia di piccole stampe a colori in una scatola di cartone. «Voglio fare un libro che le raccolga tutte, ma proprio tutte, mi disse, anche a costo di fare fallimento». Erano gli scatti di Case History, libro che di lì a poco sarebbe diventato uno dei documenti più importanti dell’editoria fotografica di tutti i tempi. 

 

Boris Mikhailov, «Self-Portrait», 2010. Courtesy Boris Mikhailov - Guido Costa Projects

Non avevo mai visto nulla di simile e fu un amore a prima vista. Il caso volle che Boris e Vita fossero in città, li incontrai la sera stessa e da quel giorno iniziammo a lavorare assieme. 

Ma che cosa rende così speciale il lavoro di Boris Mikhailov? Innanzitutto la sua disinvoltura nel liberarsi da ogni canone fotografico prestabilito, sia esso di tipo formale, che di contenuto. Non ha mai voluto fare bella fotografia e se talvolta gli è capitato, lo ha fatto con deliberata ironia, prendendosene gioco. Quando ha documentato la storia del suo paese e della sua città, Kharkiv. In Ucraina, come in «By the Ground» (1991), o in «Tea, Coffee, Cappuccino» (2011), non è mai stato indulgente verso i luoghi o le persone, ma, con una sorta di pietas sardonica, ha raccolto scarti e macerie, soffermandosi sull’inguardabile. 

La sua è un’estetica del perturbante, ai limiti dell’oltraggio, ma del tutto priva di compiacimento. È un affresco disincantato e crudele del teatro del mondo.

Da subito, da quando abbiamo iniziato a collaborare su mostre e progetti editoriali, ho capito che è impossibile proporre la sua fotografia come scatto singolo, come accade per tanti altri artisti, ma solo in forma di serie e come rappresentazione articolata di un luogo, di un gruppo o di un avvenimento, operando secondo sequenze narrative, come si fa nel cinema o in teatro.

Boris Mikhailov, «Yesterday's Sandwich», 1968-75. Courtesy Boris Mikhailov - Guido Costa Projects

Boris non è un esteta gratificato dal mondo cangiante delle forme, né un cronista attento più di tanto al divenire della realtà fattuale: è un evocatore di mondi sommersi e di storie latenti con il respiro e i tempi del grande «recit». Ogni suo scatto, spesso pensato come un piccolo rebus per gli occhi e per la mente, si spiega solo collegandosi al frammento successivo, e poi ancora, generando un dialogo complesso di riferimenti e contraddizioni tra le forme. Tutte le sue serie fotografiche, apparentemente brutali e disturbanti, nascondono in realtà un sottile gioco di corrispondenze, curatissimo nei dettagli e nei contenuti emozionali, impaginato come un canone antico e regolato secondo l’alternanza di pieno e vuoto. In questo modo le storie che ci racconta diventano a loro modo esemplari, stemperando la loro natura grottesca in pietosa attenzione verso il luogo, il soggetto, il tempo storico. 

Nella fotografia di Mikhailov, fin dai suoi primi documenti degli anni ’70-’80, la vocazione concettuale è assai presente, dapprima come dialogo tra la banalità dello scatto e la citazione colta, distillata in aforismi poetici o filosofici a commento dell’immagine stessa («Viscidity», 1982), poi con l’intervento diretto sull’immagine stampata tramite l’uso di pigmenti, correzioni a penna e matita, ritagli e sovrapposizioni. 

Boris Mikhailov è un correttore instancabile del reale, un evocatore di somiglianze e dissonanze. In ciò si nasconde, ancora una volta in forma di rebus, la sua vocazione politica, declinata nel racconto di un mondo come dovrebbe essere, ma che invece così non è. Penso sia proprio questo suo sperimentalismo disperato e ironico ad avergli permesso l’invenzione di un modo del tutto personale e unico di fare fotografia, che nel tempo gli ha guadagnato grande fama e rispetto da parte di un’intera generazione di artisti. Nel piccolo mondo della fotografia Boris è diventato una vera e propria figura di culto e i fotografi, tutti, normalmente così restii a lodi reciproche, lo amano incondizionatamente.

Boris Mikhailov, «Salt Lake», 1986. Courtesy Boris Mikhailov - Guido Costa Projects

Da qualche settimana Boris Mikhailov ha inaugurato «Pair Skating», una mostra in forma di dialogo con Wolfgang Tillmans e non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che la sede espositiva è Kharkiv, la città natale di Boris, bombardata quotidianamente dalle truppe russe. Li, nei due piani sotterranei ancora miracolosamente intatti dello Yermilov Centre, Boris espone una nutrita selezione dei suoi scatti più celebri dedicati alla Crimea accanto a grandi fotografie di cieli realizzate da Tillmans e molte altre opere ancora, in gran parte inedite. È una mostra lieve, danzata e fortemente onirica, quasi un’astronave di bellezza atterrata nel cuore del disastro e dell’orrore. 

Boris Mikhailov lavora così, pensa così, in assoluta controtendenza, rispondendo alla morte che incombe sulla sua terra con il potere dell’astrazione e con una straordinaria sequenza di un parto nelle acque del mar nero («Child Born in the Black Sea», Crimea 1990).

Poter partecipare al suo laboratorio creativo, intenso e proliferante, mi ha insegnato molto della fotografia e dell’arte, facendomi capire come un’analisi assai sofisticata dell’immagine possa sposarsi con la comunicazione diretta e mai banale di contenuti alti.

Non vedo l’ora di tornare a Berlino nella sua casa studio per discutere dei suoi tanti nuovi progetti e per scoprire, come sempre, sotto un divano o in qualche angolo dimenticato dell’archivio, immagini vecchie e nuove della sua straordinaria storia d’artista.

Guido Costa, 29 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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