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Barbara Antonetto
Leggi i suoi articoli«Il progetto di Muriel Vervat per il restauro del Pollaiolo, candidato all’edizione 2024 del Premio Friends of Florence Salone dell’Arte e del Restauro ha trovato grande approvazione da parte dei nostri donatori», ha dichiarato la presidente di Friends of Florence Simonetta Brandolini d’Adda all’avvio dell’intervento su una delle opere identificative della collezione di Stefano Bardini. I visitatori non soltanto potranno continuare a vedere l’opera durante l’intervento, ma avranno anche la possibilità di assistervi in diretta.
Nella seconda metà dell’Ottocento il celebre antiquario vendette opere straordinarie ai più grandi collezionisti del mondo, da Isabella Stewart Gardner ai coniugi Jacquemart-André a John Pierpont Morgan, per poi lasciare il proprio showroom di piazza de’ Mozzi e molte opere della sua raccolta alla Città di Firenze. Fiore all’occhiello del Museo Stefano Bardini inaugurato nel 1925, il «San Michele arcangelo che abbatte il drago» di Piero Benci detto Piero del Pollaiolo viene restaurato (sotto il controllo della Sovrintendenza dei musei comunali e grazie alla donazione di 20mila euro da parte dei Friends of Florence) in occasione del centenario del museo civico, celebrato con un ricco programma di iniziative: visite a tema, passeggiate nei giardini, living history, notte al museo per i bambini, allestimenti di piante ornamentali e perfino un concorso letterario: chiunque può scrivere un racconto dedicato a una delle opere del museo e inviarlo, corredato della foto dell’opera prescelta, a mediazione@musefirenze.it.
Il dipinto raffigura il principe degli angeli in lotta contro il demonio simboleggiato dal drago. Come ricorda Giorgio Vasari nella «Vita dei fratelli fiorentini Antonio e Piero del Pollaiolo» (1568), in origine l’opera era uno stendardo processionale della Compagnia di San Michele Arcangelo di Arezzo, il che spiega il fatto che sia stato dipinto a tempera su tela (sull’altra faccia era dipinto un Crocifisso, oggi perduto). Il prezioso drappo, portato in processione per la ricorrenza dell’apparizione dell’arcangelo sul Gargano (8 maggio) e per la festa del santo (29 settembre), era custodito nella chiesa della compagnia, andata distrutta. Nel 1766, già in cattive condizioni di conservazione, fu venduto a Francesco Rossi, noto giureconsulto e collezionista aretino, per giungere, dopo vari passaggi, nelle mani di Stefano Bardini.
Giorgio Vasari, che lodò il dipinto come «cosa maravigliosa» per la «bravura» con cui san Michele «affronta il serpente, stringendo i denti et increspando le ciglia», lo riferiva ad Antonio, il maggiore e più rinomato dei fratelli, abile disegnatore a capo di una fiorente bottega di oreficeria e scultura che serviva i Medici e i papi. La critica ritiene invece più probabile che si tratti di uno dei primi dipinti eseguiti in autonomia dal fratello Piero, di una decina di anni più giovane, posto in ombra dalla biografia vasariana, ma molto rivalutato dagli studi dell’ultimo ventennio (sue le sei «Virtù» del Tribunale della mercanzia di Firenze e la Pala dei tre santi della Cappella del cardinale del Portogallo in San Miniato al Monte oggi agli Uffizi).
La composizione deriva dall’Ercole che ammazza l’idra dipinto intorno al 1460 da Antonio del Pollaiolo, coadiuvato con ogni probabilità dallo stesso Piero, in una delle tre grandi tele con le «Fatiche di Ercole» (oggi perdute) destinate al Palazzo Medici di via Larga. Il drago è una replica con una sola testa dell’idra e san Michele riproduce la postura di Ercole, ma con una spada al posto della clava e una scintillante armatura da torneo, ornata da guarnizioni dorate tempestate di pietre preziose e perle, sul genere di quelle che secondo le fonti storiche venivano forgiate nella bottega orafa di Antonio. Stefano Bardini, grande conoscitore del Rinascimento fiorentino, di questo dipinto avrà sicuramente apprezzato la qualità artistica, ma anche la sontuosa armatura del santo, a giudicare dalle numerose armi antiche da parata che acquistò durante la sua attività di antiquario, oggi in parte esposte in una sala del museo.
A causa della sua funzione originaria di stendardo, l’opera, che oggi si presenta come un dipinto incorniciato, ha subito nel tempo diversi traumi strutturali ovviati da un’antica foderatura, ma la superficie rimane deturpata da numerose stuccature ricoperte da restauri pittorici cromaticamente alterati. Il fenomeno è particolarmente invasivo nel cielo, dove il colore originale ha assunto un aspetto giallognolo causato dall’invecchiamento della vernice protettiva, mentre i numerosi ritocchi pittorici risultano più chiari e sembrano isole sospese in aria. La campagna diagnostica propedeutica al restauro (Cnr-Ifac di Firenze, Cnr-Ispc di Firenze, Ottaviano Caruso) servirà a definire la composizione delle stesure pittoriche e, in particolare, a determinare se il processo di degrado del colore del cielo (che da blu scuro nella fascia più alta, diventa via via più chiaro, fino a trasformarsi in un velo trasparente) sia causato da un sottofondo applicato dal pittore, da un legante che si è deteriorato, o da una modifica chimica della struttura del pigmento, in modo da intervenire con metodologie efficaci.
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